Chi era l’accoltellatore di Assago

Purtroppo il 28 ottobre scorso, ad Assago (MI), un uomo ha aggredito con un coltello 5 persone all’interno di un centro commerciale; una delle persone ferite è morta. Si tratta di un avvenimento estremamente doloroso, in cui le vittime dell’aggressione hanno diritto al più profondo rispetto.

Con questa nostra riflessione noi non vogliamo minimamente mettere in dubbio quanto sopra espresso, ma vogliamo puntare la nostra attenzione sulle modalità di comunicazione di vicende come queste e sul rischio sempre presente di utilizzare, nella fretta di lanciare una notizia, delle etichette approssimative.

Nell’immediatezza dell’evento il Corriere della Sera, edizione online di Milano, è uscito con un articolo di cronaca  sull’accaduto – dal titolo “Chi è l’uomo che si è reso protagonista degli episodi di violenza nel supermercato di Assago” su cui vorremmo esprimere alcune considerazioni.

Il titolo ci informa che nell’articolo si intende descrivere e definire “chi è” l’uomo che si è reso protagonista degli episodi di violenza; il sottotitolo lo definisce “un hikikomori” e nelle prime righe del testo l’uomo viene indicato come “una specie di hikikomori di 46 anni”, giustificando tali affermazioni col fatto che l’uomo vivesse da solo con i genitori, non avesse amici, né una fidanzata, né apprezzabili relazioni sociali. Nel seguito dell’articolo, poi, il giornalista specifica che quest’uomo era un paziente psichiatrico in carico ai servizi e soffriva di altri tipi di disturbi, aggiungendo che, d’altronde, non rifiutava la relazione con gli psichiatri e che, durante e dopo l’arresto, si è mostrato collaborativo con i poliziotti, seppure disorientato e confuso. Davanti a questi dati, sentiamo necessario fare alcune precisazioni e porre alcune domande.

La prima precisazione è sulla definizione di hikikomori usata impropriamente dal giornalista e sostenuta unicamente dal fatto che l’uomo in questione vive da solo con i genitori e non ha apprezzabili relazioni sociali, quando il resto delle informazioni presenti nel seguito dell’articolo ci dicono che quest’uomo non era propriamente ritirato sociale, dato che usciva, che si rendeva disponibile ai medici curanti e comunicava con i vicini. Un atteggiamento di chiusura emozionale e di evitamento delle relazioni, come anche lo stesso ritiro sociale, si possono ritrovare in molti disturbi psicologici o psichiatrici, dalla depressione, alle fobie sociali, ai disturbi ossessivi compulsivi, ai disturbi da stress post-traumatico, alle schizofrenie paranoidi e ad altri disturbi.

Il comportamento di ritiro sociale volontario, anche qualora riscontrato, non è di per sé sufficiente a diagnosticare un qualche disturbo o malattia psichica né ad escluderla.

Per quanto la parola “hikikomori” non definisca una categoria psicopatologica, ma solo un comportamento di ritiro volontario – in gradi diversi – dalle situazioni sociali, si tratta tuttavia di un termine che ha una connotazione clinica e che, quindi, dovrebbe essere usato in modo appropriato, possibilmente avallato dalla valutazione di qualche persona esperta nel campo.

Questo termine definisce una condizione di disagio comune a tante persone che non hanno certo bisogno di essere confusamente e confusivamente associate a fatti di violenza, associazione che insinua indebitamente una pericolosità sociale di queste persone.

In una fase storica, in cui i mezzi d’informazione sembrano esprimere una preoccupante tendenza a diffondere terrori e a indirizzare poi le ansie, le paure e le rabbie attivate nel pubblico su obiettivi che incarnano delle differenze rispetto agli standard medi di comportamento e di elaborazione mentale e culturale, associare confusamente una condizione di disagio a patologie psichiatriche e a comportamenti impulsivi e violenti rischia di instillare nel pubblico paura e condanna nei confronti di una condizione di disagio ancora non pienamente compresa, col rischio che le persone che la esprimono vengano temute e penalizzate da una società che è ancora ben lontana dal riuscire ad aiutarle.

Il secondo rilievo è sull’opportunità di definire “chi sia” una persona identificandola con un suo stato di disagio o con una sua malattia.

Lo stato di disagio o di malattia non ci dice “chi sia” quella persona, ma ci informa solo su alcuni aspetti dei suoi comportamenti o vissuti, precisamente quelli che la ostacolano e le impediscono di essere se stessa.

Di fatto, gli aspetti patologici o le condizioni di disagio non definiscono “chi sia” una persona ma piuttosto “chi non sia”.

Di certo, una diagnosi non surroga l’identità. Sarebbe molto più semplice, più chiaro e più onesto scrivere semplicemente dei fatti senza lanciarsi in classificazioni e categorizzazioni per le quali mancano sia le qualifiche, che le necessarie informazioni.

Un altro rilievo che vorrei fare riguarda la sorpresa che i giornalisti e il pubblico manifestano ogni volta che un cittadino apparentemente mansueto esplode in comportamenti violenti apparentemente incomprensibili. Ogni volta, sembra che si resti attoniti davanti a questi eventi, come se fosse la prima volta che li vediamo. Eppure fatti come questo sono noti, anche nelle loro dinamiche, da qualche secolo. Accade sempre così!

Il vero pericolo insito in questi eventi è la patologia sociale che porta a dimenticarli, conservando però gli effetti traumatici da essi scatenati.

Così ogni volta ci sbalordiamo, andiamo in choc, ci spaventiamo per questo genere di eventi e poi torniamo a dimenticarli, a rimuoverli, evitando con cura di provvedere a risolvere le condizioni che li generano. Identifichiamo il pericolo con una persona o una categoria di persone senza affrontare il vero problema, quello delle condizioni d’ingiustizia e di dolore che hanno suscitato in quelle persone i comportamenti temuti. Succede praticamente sempre che le persone che esplodono in comportamenti impulsivi e violenti siano state, fino a quel momento, mansuete.

Come osserva il giornalista, il comportamento impulsivo ha a che fare con una chiusura, ma si tratta di una chiusura e di un blocco emozionale, dovuto all’attivazione di difese arcaiche, che isolano la persona dal proprio movimento interiore, dalle proprie emozioni e da quelle degli altri.

Questo stato di attivazione delle difese intrapsichiche non comporta necessariamente un ritiro dalle relazioni sociali ma ne influenza la qualità. Possiamo vedere questa chiusura in persone apparentemente ben adattate con relazioni sociali normali, apprezzate sul lavoro o a scuola, come la possiamo trovare in persone che soffrono di disturbi psichici.

Una cosa è certa: l’isolamento affettivo e la chiusura emozionale non si possono identificare con forme di ritiro sociale volontario, non più che con qualsiasi forma di disagio o anche con apparenti forme funzionali di adattamento.

La chiusura emozionale e il blocco delle emozioni comporta una difficoltà o incapacità di sentire, distinguere, riconoscere ed esprimere le proprie emozioni in modo funzionale, mantenendo la persona in una chiusura difensiva rispetto all’insorgere di emozioni, che può anche esitare nel comportamento impulsivo.

L’uniformità dei comportamenti, specialmente se passivo e acritico è il primo indice di pericolosità rispetto al rischio di comportamenti impulsivi. Come recitava la colonna sonora di un vecchissimo film western, “non c’è peggior cattivo di un buono che diventa cattivo!”

Tutto questo dovrebbe farci riflettere non su come esprimere il nostro giudizio sulle persone che esplodono o sull’individuare categorie pericolose, ma sul riconoscere e risolvere condizioni di “disagio normale” non appariscente, che genera poi le condizioni nelle quali alcune persone diventano strumenti di morte.

L’ultimo aspetto che non posso fare a meno di osservare è che il giornalista ha avuto facile accesso al fascicolo sanitario di questa persona e al resoconto del suo interrogatorio. Non sono dati sensibili, questi? È lecito esporli liberamente e senza alcuna remora in un articolo di giornale? Ed è lecito utilizzare quelle stesse informazioni per fare diagnosi, senza averne le competenze?

Una semplice descrizione dei fatti sarebbe stata meno scenografica ma indubbiamente più equa.

Di Katia Bianchi, psicologa e psicoterapeuta.