Hikikomori nell'arte
Come sempre, nella storia, gli artisti arrivano al nocciolo delle questioni molto tempo prima degli scienziati e riescono a descrivere sul piano analogico quello che le catene lineari del pensiero digitale non riesce a cogliere. Così è possibile che una visione estesa del fenomeno Hikikomori si trovi più nelle opere di artisti che sulle schematizzazioni degli scienziati. La figura dell’Hikikomori è talmente usata nei film, da essere diventata quasi uno stereotipo dei cartoni animati giapponesi (Anime).
Sempre più spesso, in queste opere, si affida all’Hikikomori il ruolo dell’eroe della storia e questa tendenza sembra avere una funzione terapeutica a livello sociale, favorendo lo sviluppo di atteggiamenti di accettazione e perfino di valorizzazione di questo modello di comportamento e della sua possibile funzione.
Una delle opere più significative in questo senso è il romanzo Welcome to the NHK di Tatsuhiko Takimoto, definitosi un hikikomori lui stesso. La sigla NHK indica l’associazione giapponese hikikomori (Nihon Hikikomori Kyōiai). Tutta l’opera, trasposta successivamente in cartoni animati, è incentrata sulla lotta del protagonista Tatsuhiro Satõ contro il suo destino di hikikomori. Satō soffre di fobia sociale, e il suo auto-isolamento è dovuto alla sua incapacità di rapportarsi in modo naturale con la società. Trovatosi improvvisamente in difficoltà economica a causa del mancato apporto dei genitori, egli sviluppa un legame di interdipendenza con Misaki, la ragazza che cerca di aiutarlo, simile a quello che si verifica tra madre e figlio.
Lo stesso tema ricorre nel cartone animato Neon Genesis Evangelion di Hideaki Anno . In quest’opera, il personaggio di Shinji ikari presenta un quadro comportamentale riconducibile a quello degli hikikomori, nella sua incapacità di relazionarsi con gli altri e nel suo rifiuto verso il mondo esterno, nell’atteggiamento compulsivo e l’assenza di una figura parentale positiva di riferimento. Perfetta trasposizione dell’incertezza sociale del Giappone di metà anni novanta, Shinji incarna lo spirito di una società giovane che soffre a causa dei cambiamenti sociali e i cui membri non sono in grado di affrontare il duro sistema educativo, la crescente instabilità del lavoro e la grande pressione sociale.
Nell’opera Ano Hana, il protagonista Jinta Yadomi diviene hikikomori a causa di un trauma subito in età infantile. In Kami-sama no memo-chõ la protagonista Alice vive chiusa nel suo appartamento utilizzando Internet per rimanere in contatto con il mondo esterno. In La mia Maetel , il protagonista Shintarō Koizumi, auto-recluso da quindici anni, si innamora della propria matrigna.
Questi esempi non sono che alcuni, più significativi di un’ampia letteratura in merito.
Da un punto di vista simbolico, a me piace vedere l’Hikikomori come l’eroe prediletto del capo che improvvisamente viene ingiustamente ridefinito come un criminale o uno schiavo, degradato ed emarginato, nascosto al mondo, un po’ come Massimo Decimo Meridio nel film “Il gladiatore”. La cura è rendergli giustizia dei torti subiti, riconoscendoli, e aiutare il gladiatore a contare sulle sue reali risorse, a sperimentare quanto in realtà sia forte e coraggioso, quanto sia amato.
È significativo che nell’arte si realizzi proprio questa speciale funzione terapeutica.
Di Katia Bianchi, psicologa e psicoterapeuta.