Hikikomori secondo la Nuova Medicina

Giorni fa, qualcuno chiedeva, su un post che non riesco a ritrovare, cosa io ne pensassi del fenomeno degli Hikikomori, i ragazzi che si isolano dal mondo. Questo fenomeno si è diffuso a macchia d’olio negli ultimi anni, nelle società occidentali, cosiddette “evolute”, destando particolare preoccupazione. E’ stato così definito dai giapponesi, tra i quali pare che questo fenomeno sia particolarmente diffuso. Nella sua forma, non è un fenomeno nuovo. La novità è rappresentata dalla frequenza del fenomeno. Ricordo di aver trattato diversi casi di questo genere, fin dall’inizio della mia attività professionale, a partire dagli anni ’80. Nelle classificazioni nosografiche dell’epoca, come in parte nelle attuali, si parlava di fobia con ritiro sociale, di disturbo di evitamento con o senza attacchi d’ansia o di panico, eventualmente combinato con disturbo ossessivo o paranoide. Talvolta, associato al ritiro sociale, si trovava un disturbo depressivo, paranoico o schizofrenico.

Gli Hikikomori, nella forma attuale, sono in genere ragazzi con spiccate qualità d’intelligenza, sensibilità ai bisogni degli altri e senso di responsabilità, che occupano nell’infanzia una posizione sociale apprezzabile. Sono, all’origine, responsabili, efficienti nello studio, nello sport e nelle relazioni sociali, collaborativi con caratteristiche di generosa disponibilità ad aiutare gli altri. Si tratta di veri piccoli leader, che, all’improvviso, manifestano la drastica intenzione di ritirarsi dal mondo, rifiutando tutti i contesti sociali e chiudendosi anche con i familiari. Passano la maggior parte del tempo chiusi nella loro stanza, relazionandosi con la famiglia il minimo necessario alla sopravvivenza, senza dare spiegazioni. Spesso, se sollecitati dai familiari a spiegarsi o a cambiare la loro posizione, dichiarano la loro impotenza o si ribellano violentemente alle pressioni. Discussioni con i familiari, richiami a ragionare, punizioni o coercizioni da parte dei familiari esasperano la posizione di rifiuto delle relazioni. Generalmente, la richiesta d’aiuto viene dai familiari, perché gli Hikikomori si chiudono nei confronti di possibili aiuti. Da quando conosco la Nuova Medicina, ho cercato di analizzare questo fenomeno in termini di conflitti e di traumi. In ogni singolo caso sono partita da ogni sintomo per risalire al conflitto e quindi allo choc. La prima importante utilità di questo modo di raccogliere le informazioni diagnostiche è stata la possibilità di spostare l’attenzione dei genitori dagli aspetti valutativi della patologia del figlio su aspetti funzionali. Dicevo ai genitori: – Dite a vostro figlio che mi avete chiesto aiuto perché soffrite per lui, non sapete come aiutarlo né come gestire la vostra ansia nei confronti di quello che gli accade, senza tormentarlo. Ditegli che io vi ho detto che lui non è “fatto male”, carente o incapace, ma che gli è accaduto un terribile imprevisto, che lo ha fatto sentire isolato, escluso. Lui non è più debole degli altri, ha solo preso una tegolata così forte, che avrebbe forse ucciso altri meno forti di lui. Ditegli che io vi ho consigliato di non fargli pressioni e di restare in ascolto e che io sono disponibile ad aiutare voi a gestire le vostre emozioni nei suoi confronti.

Questa prospettiva contiene l’ansia dei genitori, diminuisce la pressione sul ragazzo, quindi anche la sua ansia e offre una spiegazione logica e funzionale delle cause del disturbo, che attenua i sentimenti di auto-svalutazione del ragazzo e quindi, la chiusura: lui non è più il problema dei familiari ma c’è un trauma che lui ha patito e di cui tutti stanno sperimentando gli effetti. Inoltre, il ragazzo è perfettamente in grado di riconoscere l’evento traumatico, che gli ha cambiato la vita ed è incuriosito dalla connessione tra questo e lo stato di conflitto attuale, perché la sente.

Questa connessione diminuisce la paura della diagnosi, la paura di essere dichiarato matto. E ora veniamo al trauma. In tutti i casi che ho potuto osservare, il trauma di base è quello di perdita del contatto fisico, che attiva un conflitto di separazione. In molti casi, si tratta di un binario di separazione, che tende a riattivarsi. In conseguenza del binario di separazione, questi ragazzi sono cresciuti come piccoli adulti: seri e responsabili, attivi e collaborativi, desiderosi di farsi apprezzare e di compiacere genitori e insegnanti, di aiutare i coetanei, spesso adottando un atteggiamento da maestro o da genitore.

Sono bambini parentificati. Fondamentalmente non si fidano degli adulti e li sostituiscono. Nel profondo c’è sempre la paura di essere abbandonati se non saranno perfetti, se non veglieranno sui loro cari. Nel profondo c’è sempre un’intensa rabbia per la separazione subita. Quando non c’è un binario, il conflitto di separazione si attiva nel momento del trauma recente all’origine del disturbo. Generalmente, lo choc scatenante è un’esperienza dove il ragazzo si sente ingiustamente accusato, di un’accusa infamante, che gli nega l’appartenenza al gruppo, lo sbalza dalla sua posizione nel gruppo, si sente “degradato” e allontanato.

Quando questa negazione dell’appartenenza avviene per un errore, per qualcosa che il ragazzo non è stato in grado di fare, si attiva, accanto al conflitto di separazione o sulla base del binario, un contemporaneo conflitto di autosvalutazione, per cui il ragazzo sente che non può rispondere alle aspettative degli altri, perché è un incapace, un fallito. Ho visto questo vissuto in un ragazzo, che, dopo aver seguito il corso di studi con eccellenza, prese un voto molto scadente all’esame di maturità. In altri casi, il conflitto di separazione si combina con un conflitto di attacco all’integrità, con un programma del derma diretto dal cervelletto.

Nella mia esperienza non osservo costellazioni di morte emozionale, piuttosto un’interazione tra un conflitto di separazione e un conflitto di attacco. Quest’interazione si vede quando al momento dello choc scatenante c’è l’esperienza di un’accusa infamante, di una calunnia degradante, offensiva, che deturpa e sporca l’immagine di sé, che compromette l’integrità, che costituisce un attacco fisico, come può accadere in caso di offese o dileggiamento per caratteristiche fisiche. Quando, con il conflitto di separazione si combinano conflitti dell’area del territorio, possiamo vedere, associate agli altri sintomi, anche manifestazioni depressive, se si è attivato un conflitto maschile di territorio (o femminile in una mancina), maniacali, come nel caso che lo choc scatenante sia rappresentato dalla perdita della ragazza o dalla perdita della posizione dominante in un gruppo.

Se con il conflitto di separazione si combina un conflitto di frustrazione sessuale femminile (o di territorio per un mancino), vedremo, associato agli altri sintomi, anche un certo grado di maniacalità. Se il conflitto di territorio è quello di rancore, quindi una delle emozioni vissute nel momento dello choc è la rabbia, avremo un ritiro sociale con manifestazioni di rabbia, che può anche diventare una risposta violenta ai tentativi di contatto o alle pressioni dei familiari, se il ragazzo si sente privato della sua identità e non sa più chi è rispetto agli altri, qual è il suo posto, come deve comportarsi con loro. Se si ha l’interazione di conflitti di paura frontale, quindi se il vissuto di choc è stato quello di un evento pauroso che non si può evitare, possiamo avere, combinati con il ritiro sociale, anche attacchi d’ansia o di panico e una continua aspettativa di disastri futuri. Se invece, durante l’esperienza di choc ci si è sentiti attaccati alle spalle, braccati, allora avremo anche ideazioni paranoidi. Io ho conosciuto anche ragazze che soffrivano di questo disturbo, anche se, come ci dicono le statistiche ufficiali, si riscontra molto di più nei maschi.

Credo che questa differenza sia dovuta al fatto che è più frequente che siano i maschi ad occupare una posizione di preminenza nei gruppi di adolescenti e quindi a correre il rischio di decadere improvvisamente da un ruolo di leader. Da un punto di vista simbolico, mi piace vedere l’Hikikomori come l’eroe prediletto del capo che improvvisamente viene ingiustamente ridefinito come un criminale o uno schiavo, degradato ed emarginato, nascosto al mondo, un po’ come Lucio Massimo Meridio nel film “Il gladiatore”. La cura è rendergli giustizia dei torti subiti, riconoscendoli, e aiutare il gladiatore a contare sulle sue reali risorse, a sperimentare quanto in realtà sia forte e coraggioso, quanto sia amato.

Di Katia Bianchi, psicologa e psicoterapeuta.