Il ritiro sociale visto dal di dentro.

Riportiamo la testimonianza di un ragazzo di quarta Liceo che è intervenuto ad un incontro organizzato dalla scuola per presentare il tema del ritiro sociale volontario.

“Volevo portare il punto di vista di qualcuno che è un po’ un hikikomori, che trova grandissima soddisfazione nella reclusione nella sua stanza, che soffre spesso soltanto nel camminare, nell’agire, nel parlare, nell’interagire con gli altri e nell’andare a scuola. Volevo portare un attimo il nostro punto di vista.

Adesso sono qui, sono rientrato a scuola da un paio di settimane, la mia reclusione è durata poco, soltanto tre mesi, perché mi sono sforzato, con l’aiuto delle persone che mi sono state vicino, di uscirne. Volevo parlarvi di come noi vediamo voi altri mentre andiamo in reclusione o pensiamo di andarci.

É sicuramente vero che la paura del giudizio in senso complessivo ci può tenere in casa, ma spesso è anche il nostro giudizio su tutti voi e con “tutti voi” mi riferisco a quelli delle nostre generazioni, ancora di più che agli adulti, a portarci a decidere di chiuderci in una stanza. Noi con la nostra sensibilità, spesso un po’ troppo sviluppata, osserviamo delle persone che ci circondano e che fanno alcune cose che ci deludono ancora prima di toccare noi stessi: ci deludono perché pensiamo che siamo anche noi degli esseri umani e vediamo gli esseri umani, altri esseri umani come noi, inserirsi in certi comportamenti. O meglio, vi spiego bene perché sono pochi e sono facili da capire.

Le nuove generazioni al giorno d’oggi hanno un altro tipo di reazione a questa iper competitivitá, a questo individualismo, e questa ipocrisia della società, che non è né il bullismo, né diventare un hikikomori. È l’atrofizzarsi dell’etica e della morale. Voi, tutti quanti, nel vostro percorso di crescita e di studi, familiare e scolastico, avete imparato a modo vostro, con le differenze specifiche dovute alle differenze di vita, cos’è il bene, cos’è il male, cos’è eticamente corretto, cosa è giusto fare, perché è giusto farlo.

Se prendo una persona di voi a caso, e le chiedo di dirmi cosa è giusto fare davanti ad una persona ferita, che sta male in strada, me lo sa sicuramente dire. Vorrei vedere quanti di voi davvero aiuterebbero una persona che magari è in strada e ferita per terra e quanti invece andrebbero oltre. Sono sicuro che, se anche per senso del dovere di fronte a delle persone direste: “mi fermerei ad aiutarla”, sinché avete qualcos’altro da fare nella vostra testa in quel momento, probabilmente tirereste dritto. Infatti è quello che vedo fare: se c’è una donna con un figlio che deve attraversare la strada con il semaforo rosso e non se n’è accorta, se c’è qualcuno che in bicicletta cade per terra in strada… io non vedo praticamente mai nessuno fermarsi ad aiutare e io stesso sono uno che di suo non va ad aiutare gli altri.

E noi, quando siamo li che siamo un po’ indecisi su cosa fare, se si parla di noi pre-hikikomori, vi osserviamo e vediamo come voi, voi “altri”, voi persone esattamente come noi, siate perfettamente in grado, pur conoscendo le emozioni, sapendo cosa è giusto, avendo una vostra percezione della società, ignorare completamente quelli che sono il precipitato della natura umana. Gli apriori non hanno bisogno della Religione o di qualcuno che vi venga a dire se sono giusti o sbagliati. Perché sono nati, sono stati inseriti nelle leggi e nella religione proprio perché erano già dentro la natura umana. Eppure in questa società individualista, ipercompetitiva, cattiva per certi versi e anche un po’ cinica, noi ce li dimentichiamo: noi tutti.

Noi li conosciamo, sappiamo cosa dobbiamo fare : è ok nella nostra testa e spesso, perché è necessario in quanto siamo umani, li applichiamo. Qualche volta abbiamo bisogno, per sentirci umani, di andare ad aiutare qualcuno, di fare una buona azione gratuita… ma è soddisfazione personale, non ci importa tanto il fatto che è una cosa giusta, quanto il fatto che ci rende più umani, ci permette di ignorare il male che facciamo a noi stessi e agli altri, ci dà una percezione di giustizia. Anche nell’errore e nella difficoltà, ci fa sentire più tranquilli.

E noi Hikikomori, o pre-hikikomori, guardiamo. Osserviamo. E ci chiediamo: “ma che cavolo di senso ha?!?”. Non solo competere per qualcosa che non sappiamo se possiamo raggiungere, ma che senso ha andare a competere in una società che non ci darà nessuna retribuzione morale, nessuna retribuzione emotiva. Noi, se anche riuscissimo a raggiungere, appunto, quell’”ideale” di 7 milioni di follower, di essere Ronaldo, o quel qualunque cosa ci mettiamo in testa come ipotetico obbiettivo sensato della nostra vita, sentiamo che noi dentro, al nostro interno, come soddisfazione, come esseri umani, non otterremo niente.

E allora non ha nessun senso andare avanti, non ha nessun senso lottare, tanto vale buttarsi su un letto, (io preferivo il divano, mi piaceva di più) … e stare a fissare il soffitto senza fare niente tutta la giornata. Magari saltando anche i pasti e rischiando di morire di fame. È chiaramente molto, molto più semplice che andare in un posto in cui nessuno ti apprezza, quelli che ti apprezzano non sei sicuro che lo facciano davvero e non lo facciano per senso del dovere… nessuno sembra essere, o se lo sembra, non pensi che sia per davvero dalla tua parte, e in cui alla fine non ti senti nulla.

Io ho fatto atletica per 10 anni della mia vita. Ho raggiunto dei buoni risultati, ero un mezzofondista, mi piacevano le distanze lunghe, 1000/2000 metri. Ho raggiunto dei buoni risultati… non si sentiva nulla nel raggiungerli. Io andavo li, facevo il mio, e le reazioni erano poche. Erano, o da mio padre, che lo riteneva normale e per lui non era minimamente importante; gli allenatori volevano che si desse di più; i compagni di squadra, o ti invidiavano, perché avevi dei risultati migliori dei loro, o ti ignoravano, perché eri un’altra persona ed essendo un’altra persona non c’era motivo di approcciarsi a te. In quel contesto li, anche se sei lì perché lo fai per te stesso, io mi sentivo, e per dialogo con altre persone so che anche altri si sono sentiti in situazioni simili… afflitti, afflitti da un senso di vuoto, di nulla degli altri, che andava ad alimentare il nostro.

Percepire il vuoto nelle azioni e nelle emozioni che gli altri dovrebbero e sembrerebbero provare, aumenta a dismisura il vuoto che abbiamo già noi dentro. Ed è per quello che andiamo a crollare, non soltanto perché abbiamo paura del giudizio, ma perché noi, giudicando voi, vi vediamo veramente… rotti come esseri umani. Non perché siate cattive persone. Perché la maggior parte delle persone non si comporta male, non è disonesta, ma non provate nulla nell’essere onesti o almeno non sembrate provare nulla nell’essere onesti. Non sembrate provare nulla nel fare la cosa giusta. Lo fate al massimo per senso del dovere, per sentirvi un po’ più umani, ma è una percezione veramente risibile.

Io sono una persona che da quando è nata è sempre stata lodata dagli altri per grande empatia, grande capacità di comprendere gli altri, (non mi sto vantando, è un dato di fatto, lo sostengono altre persone) ma io spesso sono arrivato a chiedermi dove sia andata questa empatia, questa capacità di comprendere gli altri, perché sono arrivato ad un certo punto a non capire nulla di cosa stessero pensando gli altri, anche se questo tipo di affermazione con me non si è mai fatta.

Qualche mese fa, a fronte di miei problemi personali, sono crollato definitivamente e ringrazio veramente quelli che hanno fatto un grande sforzo per ritirarmici fuori, ma perché non avevo ancora finito di isolarmi, ero ancora nelle fasi iniziali, avevo ancora qualche contatto con l’esterno. Va beh, volevo solo far sentire la voce di noi Hikikomori, cosa pensiamo noi prima di isolarci….