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Pubblicazioni, articoli, citazioni, testimonianze sul fenomeno del ritiro sociale.

Alcuni psichiatri giapponesi hanno ipotizzato che il ritiro sia dovuto all’aggravarsi di disturbi preesistenti, che influenzano il comportamento sociale, come i disturbi pervasivi dello sviluppo o i disturbi dello spettro autistico, esasperati da pressioni sociali e culturali, che sollecitano alla competitività e all’omologazione.

Alcuni psichiatri giapponesi hanno ipotizzato che il ritiro sia dovuto all’aggravarsi di disturbi preesistenti, che influenzano il comportamento sociale, come i disturbi pervasivi dello sviluppo o i disturbi dello spettro autistico, esasperati da pressioni sociali e culturali, che sollecitano alla competitività e all’omologazione.

Lo studio di Mami Suwa e Koichi Hara, del 3 gennaio 2007[1] sulla correlazione tra condizione di ritiro sociale volontario e presenza di disturbi mentali secondari, ha rilevato, su un campione di ventisette ragazzi Hikikomori, la presenza di un alto disturbo pervasivo dello sviluppo in cinque casi, depressione, disturbo ossessivo-compulsivo, disturbo della personalità e lieve deficit cognitivo in dodici casi, mentre in 10 casi non hanno riscontrato nessun disturbo mentale secondario.

Un’altra causa del ritiro sociale è stata rilevata nel pesante carico di responsabilità delle aspettative della società e della famiglia, che pretende che i giovani siano eccellenti negli studi fin da molto piccoli e vincenti nella professione. La scelta Hikikomori potrebbe essere, secondo questa ipotesi causale, una forma di resistenza alla forte spinta all’autorealizzazione e al successo, che fa vivere ogni errore o insuccesso come un grave fallimento e una delusione data ai familiari. Secondo quest’ipotesi, l’auto-isolamento può essere un modo di dire “no” al conformismo, all’omologazione e alla competizione, che rappresentano sollecitazioni molto forti nella società giapponese e in tutto l’occidente industrializzato.

Un altro fattore causale potrebbe essere la crisi in cui versano queste società, nonostante la loro spinta alla competizione e all’efficienza, tanto che i giovani non vedono più un futuro, non hanno la garanzia che il loro impegno nella formazione garantisca loro un lavoro remunerativo o decoroso, come è stato per i loro genitori. Perciò molti adolescenti e giovani possono sentire che i loro sforzi sono inutili e possono cercare di affermare la propria identità nel nascondersi, nel fuggire dalla realtà e dalle proprie responsabilità. Mentre i loro padri possono godere ancora di un impiego a vita, i giovani che entrano nella società dopo la scuola non possiedono tali garanzie nel mercato del lavoro. A causa di questo, molti giovani incominciano a sospettare che il sistema posto in essere per i loro padri e nonni non funzioni più, e per alcuni, la mancanza di un obiettivo di vita chiaro li rende suscettibili al ritiro sociale come hikikomori.

Un altro fattore causale è stato trovato nell’inasprimento delle relazioni sociali tra adolescenti e tra le persone in genere, un deterioramento delle relazioni umane, diventate sempre più cariche di aggressività e violenza. Tra gli adolescenti si sono diffuse drammaticamente forme di bullismo. Questo mette i ragazzi di fronte alla necessità di difendersi con la stessa violenza con cui si viene aggrediti. Molti ragazzi si sentono disarmati in queste situazioni e molti di quelli che sono capaci di difendersi si possono trovare nella condizione di essere accusati, puniti per essersi difesi. Delle relazioni di questo genere, con le esperienze che comportano, possono facilmente generare disturbi d’ansia, fobia sociale, agorafobia, attacchi d’ira e comportamenti impulsivi. 

La vittima di bullismo si sente facilmente inadeguato, incapace di affrontare le relazioni, quindi potrebbe facilmente decidere di isolarsi dalle attività scolastiche e dalla società stessa, vissuta come violenta e ingiusta. In questo senso, la reclusione può sembrare l’unico modo per manifestare il proprio dissenso o il proprio disagio rispetto alla società e alle sue norme.

Anche la timidezza può svolgere un ruolo nell’insorgenza di hikikomori. Questo stato può portare a situazioni in cui il ragazzo colpito dal disturbo arrivi a provare vergogna o si senta ferito nell’orgoglio per situazioni che, in uno stato d’animo regolare, risulterebbero facilmente sopportabili. Nei peggiori dei casi, questa situazione può evolvere in una manifestazione di disturbi paranoidi, i quali possono contribuire ad accrescere la possibilità di isolamento sociale.

Secondo i ricercatori giapponesi, un fattore suscettibile di aggravare e prolungare lo stato di ritiro sociale sta nel fatto che la maggior parte delle famiglie aspetta anche molto tempo prima di chiedere aiuto, sperando che il figlio possa risolvere il problema da solo. In quest’attesa gioca un ruolo importante la vergogna provata dal figlio Hikikomori per la delusione data ai genitori, che risuona con la vergogna provata dai genitori per avere un figlio, che resta indietro rispetto agli altri, un figlio che “non è normale”.

Secondo alcuni studi, anche la capacità economica della famiglia, che permette di mantenere un figlio isolato in casa per lungo tempo, è un fattore importante, che incide sul fenomeno del ritiro sociale. Infatti, nelle famiglie a basso reddito, un figlio che lascia la scuola si deve inserire nel mondo del lavoro, per cui, se inizia a manifestare un comportamento d’isolamento, questo tende a risolversi in tempi brevi. In queste condizioni, il disagio interiore, che non si può manifestare nell’isolamento, sfoga in altri modi, ad esempio nell’abuso di sostanze, nei comportamenti impulsivi o violenti, in varie forme di difficoltà nelle relazioni.

Un fattore che gli studi giapponesi hanno messo in relazione col fenomeno Hikikomori è il modello di relazioni familiari[2] più comune nelle famiglie giapponesi, dove il padre, impegnato prevalentemente nelle attività lavorative, tende a disimpegnarsi dalle questioni che riguardano le relazioni con i figli, delegandole alla madre. Il padre, poco presente, tende a conservare un ruolo di controllo, di autorità, di valutazione e giudizio, esercitando una funzione di potere sui figli, piuttosto che di condivisione e di partecipazione affettiva. In questo contesto, si può vedere la chiusura e il ritiro del figlio come un’estrema conseguenza dell’identificazione col padre e della sua assenza emozionale e come una forma di estrema ribellione nei confronti dell’organizzazione sociale e del modello paterno.

All’assenza e anaffettività del padre, fa riscontro, in questo sistema di relazioni, un’eccessiva e irrisolta dipendenza dalla madre, che rende difficile ai ragazzi lo sviluppo di comportamenti autonomi[3].

A sostegno di quest’ipotesi, si osserva che questo fenomeno si verifica prevalentemente in adolescenti maschi con madri troppo ansiose e opprimenti[4] in situazioni in cui il peso dell’educazione e del mantenimento dei figli ricade esclusivamente su queste ultime, le quali nel 95% dei casi ne assecondano l’isolamento[5]. Il rischio che i figli rimangano in un rapporto di simbiosi con la madre è accresciuto dall’assenza del padre, che di rado interviene in funzione di separazione tra madre e figlio[6].

Gli studiosi giapponesi hanno osservato, come comportamento tipico della madre Hikikomori, quello di appoggiare e di non interferire con l’operato del figlio, senza disturbarlo e senza indagare sul motivo del suo malessere, nell’attesa che la situazione ritorni alla normalità. In questo modo l’isolamento, col passare del tempo, diventa totale, passando da momenti di dipendenza a momenti di forte aggressività, che possono sfociare in casi di violenza verso la madre[7].

Secondo le osservazioni degli studiosi giapponesi, è frequente che i bambini continuino a dormire nel letto dei genitori anche fino a 10 anni[8] e che mantengano uno stato di dedizione, soggezione alla madre, che influenza poi tutte le altre relazioni adulte. La madre giapponese contemporanea, inoltre, ha sviluppato un forte sentimento di iperprotettività verso il figlio, causato, oltre all’assenza del marito, dal desiderio di proteggere il primo dalle aspettative che la società e la stessa famiglia hanno riposto in esso[9].

Da un punto di vista sistemico e specificamente di psicologia dei sistemi umani, possiamo osservare che la relativa assenza del padre dalle relazioni familiari e la totale delega alla madre della gestione delle relazione coi figli, oltre a determinare un’iperfunzione della madre, con relativi vissuti di solitudine e mancanza di sostegno affettivo e pratico, genera nel figlio adolescente la necessità di sostituire la figura paterna, di rinunciare al suo ruolo di figlio per rendersi autonomo dai legami familiari e porsi al fianco della madre in funzione di partner. Il figlio parentificato non riesce a liberarsi dalla dipendenza dalla madre e, nello stesso tempo, vive un intenso conflitto tra la fedeltà e soggezione alla madre e il bisogno di autonomia. Il ragazzo adolescente, che resta accanto alla madre in funzione di partner, deve mettere d’accordo dentro di sé la parte infantile che resta soggetta alla madre e la proiezione del padre, che lui deve sostituire. Questo ragazzo oscilla tra il bisogno di compiacere e obbedire la madre e il bisogno d’imporsi a lei come farebbe il padre, perché lui vive la sua funzione adulta come quella dell’uomo di casa. Questo conflitto può diventare drammatico nel rapporto con la madre ma può anche alimentare una forte conflittualità, più o meno latente e rimossa oppure espressa ed aperta, col padre e con tutte le figure che rappresentino l’autorità.

Un fattore culturale che, secondo gli studiosi giapponesi, incide sulle cause del fenomeno Hikikomori  è rappresentato dal ruolo di fondamentale importanza che, nella loro cultura, ha l’aspettativa sociale che una persona esprima in pubblico solo comportamenti, atteggiamenti, sentimenti, emozioni ed opinioni consone alle aspettative della società e della famiglia in quelle circostanze e nella propria posizione sociale, nascondendo agli altri e talvolta anche a se stessi i desideri profondi, le emozioni, pensieri e opinioni che sarebbero sentiti dissonanti rispetto alle aspettative[10]. L’esistenza di questi due aspetti della vita giapponese comporta la presenza di un doppio registro psichico nei giapponesi[11], i quali anche se talvolta contrari alle regole della società, debbono rispettarle per salvaguardare l’armonia del gruppo. La ricerca di consonanza con gli altri conduce spesso a trascurare e rimuovere le proprie emozioni e sentimenti reali, quindi a chiudersi in sé, a rinunciare ad esprimere sentimenti, emozioni ed opinioni personali, allo scopo di evitare qualsiasi conflitto nelle relazioni[12]. Molti ragazzi hanno difficoltà a mantenere questa dicotomia di comportamenti e questa difficoltà potrebbe incoraggiare l’isolamento e il ritiro. In effetti, la repressione e rimozione delle emozioni e dei sentimenti vissuti, la rinuncia ad esprimere le proprie opinioni e vissuti, per conformarsi a un’immagine “di facciata” è uno dei più comuni fattori di ansia. Proprio per tenere sotto controllo la tendenza dell’ansia ad aumentare fino a diventare ingestibile, si è portati ad isolarsi fisicamente da tutte le situazioni che, attivando emozioni, in condizioni di chiusura e di blocco emotivo, generano ansia. Quindi è pensabile che questa riluttanza generi disturbi della comunicazione, che possono esitare nei comportamenti d’isolamento e ritiro sociale[13].

Secondo lo psicoterapeuta Yuichiri Hattori, gli hikikomori, costretti come tutti i giapponesi ad adottare tali sentimenti di facciata fin da piccoli, non sono più in grado di liberarsene in favore della loro autentica personalità, con conseguenti problemi nel loro sviluppo emotivo. Secondo Hattori infatti essi temono la possibilità che mostrare i loro veri sentimenti possa pregiudicare i rapporti sociali con gli altri, forzandoli ad adottare una personalità di facciata in grado di uniformarsi al resto della società. Tuttavia, la maggior parte di essi non resiste a questa pressione, finendo per crollare emotivamente.

L’ipotesi dell’origine traumatica

Dalle teorie sul trauma impariamo metodiche, che ci permettono di individuare i traumi patiti a partire dai sintomi, dai vissuti e dai comportamenti attuali. Nel mio lavoro di supporto nei gruppi di mutuo aiuto dei genitori dei ragazzi ritirati, ho cercato di comprendere, dalle loro descrizioni dei comportamenti, delle espressioni e comunicazioni dei loro figli, quali traumi questi potessero aver subito e quali conflitti questi traumi avessero attivato dentro di loro. In ogni singolo caso, sono partita da ogni singolo sintomo di sofferenza e disagio per individuare le “coordinate” del trauma.

La prima importante utilità di questo modo di raccogliere le informazioni diagnostiche è stata la possibilità di spostare l’attenzione dei genitori dagli aspetti valutativi della patologia del figlio su aspetti funzionali. Dicevo ai genitori: – Dite a vostro figlio che mi avete chiesto aiuto perché soffrite per lui, non sapete come aiutarlo né come gestire la vostra ansia nei confronti di quello che gli accade, senza tormentarlo. Ditegli che io vi ho detto che lui non è “fatto male”, carente o incapace, ma che gli è accaduto un terribile imprevisto, che lo ha fatto sentire isolato, escluso. Lui non è più debole degli altri, ha solo preso una tegolata così forte, che avrebbe forse ucciso altri meno forti di lui. Ditegli che io vi ho consigliato di non fargli pressioni e di restare in ascolto e che io sono disponibile ad aiutare voi a gestire le vostre emozioni nei suoi confronti, per evitare che si scarichino in forma di preoccupazioni e pressioni su di lui.

Questa prospettiva contiene l’ansia dei genitori, diminuisce la pressione sul ragazzo, quindi anche la sua ansia e offre una spiegazione logica e funzionale delle cause del disturbo, che attenua i sentimenti di auto-svalutazione del ragazzo e quindi, la chiusura: lui non è più il problema dei familiari ma c’è un trauma che lui ha patito e di cui tutti stanno sperimentando gli effetti. Inoltre, il ragazzo è perfettamente in grado di riconoscere l’evento traumatico, che gli ha cambiato la vita ed è incuriosito dalla connessione tra questo e lo stato di conflitto attuale, perché la sente. Questa connessione diminuisce la paura della diagnosi, la paura di essere dichiarato matto.

E ora veniamo al trauma. In tutti i casi che, direttamente o indirettamente ho osservato, ho sempre potuto riscontrare l’esistenza di un grave trauma o di una situazione traumatica, dove il ragazzo è stato sottoposto a continue esperienze traumatiche o ha sperimentato una situazione di grande conflittualità generata dall’esperienza traumatica.

Nelle persone ritirate che ho conosciuto direttamente e attraverso i familiari, troviamo sempre dei traumi, per lo più vissuti in ambiente scolastico, in occasione dei quali la persona si è sentita svalutata, derisa, bullizzata o sottoposta a pressioni esagerate al rendimento e al successo. Sono frequenti le esperienze di esclusione da parte del gruppo di compagni o di svalutazioni da parte di insegnanti, quando non addirittura esperienze di aggressioni e minacce.

Talvolta si tratta di traumi complessi, esperienze traumatiche precoci, che si sono ripetute nella stessa forma più volte nel corso della vita. In genere, i ragazzi che hanno avuto queste esperienze di successioni di traumi o di situazioni traumatiche sono quelli che, insieme ai comportamenti di chiusura e ritiro, manifestano anche altri sintomi psichici. In altre situazioni, possiamo individuare un trauma accaduto qualche tempo prima del ritiro. Questo si riscontra negli Hikikomori “puri”, quei ragazzi ritirati che non manifestano altri disturbi più specifici.

In tutti i casi che ho potuto osservare, il trauma di base è quello di perdita del contatto fisico, che attiva un conflitto di separazione. In molti casi, si tratta di un binario[14] di separazione, che tende a riattivarsi o, detto in altri termini, di un trauma infantile, che ha prodotto un disturbo dell’attaccamento con le figure di riferimento, che rappresenta una predisposizione a rivivere altre esperienze di separazione nel corso della vita. In conseguenza del binario di separazione, questi ragazzi sono cresciuti come piccoli adulti: seri e responsabili, attivi e collaborativi, desiderosi di farsi apprezzare, di compiacere genitori e insegnanti, di aiutare i coetanei, spesso adottando un atteggiamento da maestro o da genitore. Sono bambini parentificati. Fondamentalmente non si fidano degli adulti e li sostituiscono. Nel profondo c’è sempre la paura di essere abbandonati se non saranno perfetti, se non veglieranno sui loro cari. Nel profondo ci sono sempre un’intensa rabbia e un dolore per la separazione subita.

Quando non c’è un binario, il conflitto di separazione si attiva nel momento del trauma recente all’origine del disturbo. Generalmente, lo choc scatenante è un’esperienza dove il ragazzo si sente ingiustamente accusato, di un’accusa infamante, che gli nega l’appartenenza al gruppo, lo sbalza dalla sua posizione nel gruppo, si sente “degradato” e allontanato. Quando questa negazione dell’appartenenza avviene per un errore, per qualcosa che il ragazzo non è stato in grado di fare, si attiva, accanto al conflitto di separazione o sulla base del binario, un contemporaneo conflitto di autosvalutazione, per cui il ragazzo sente che non può rispondere alle aspettative degli altri, perché è un incapace, un fallito. Ho visto questo vissuto in un ragazzo, che, dopo aver seguito il corso di studi con eccellenza, prese ingiustamente un voto molto scadente all’esame di maturità.

In altri casi, il conflitto di separazione si combina con un conflitto di attacco all’integrità, che interagisce con il conflitto di separazione. Quest’interazione si vede quando al momento dello choc scatenante c’è l’esperienza di un’accusa infamante, di una calunnia degradante, offensiva, che deturpa e sporca l’immagine di sé, che compromette l’integrità, che costituisce un attacco fisico, come può accadere in caso di offese o dileggiamento per caratteristiche fisiche.

Quando, nel momento del trauma, la persona ha vissuto l’esperienza della perdita di un amico, della ragazza, la perdita della posizione dominante o del suo ruolo in un gruppo, accanto ai sintomi della separazione, possiamo trovare anche quelli legati al comportamento territoriale. In questo caso, possiamo vedere, associati al comportamento di auto-esclusione, anche un certo grado di disturbi depressivi o maniacali.

Se una delle emozioni prevalenti vissute nel momento dello choc è la rabbia, avremo un ritiro sociale con manifestazioni di rabbia, che può anche diventare una risposta violenta ai tentativi di contatto o alle pressioni dei familiari, se il ragazzo si sente privato della sua identità e non sa più chi è rispetto agli altri, qual è il suo posto, come deve comportarsi con loro.

Se il vissuto di choc è stato quello di un evento pauroso che non si poteva evitare, possiamo avere, combinati con il ritiro sociale, anche attacchi d’ansia o di panico e una continua aspettativa di disastri futuri. Se invece, durante l’esperienza di choc ci si è sentiti attaccati alle spalle, braccati, allora avremo anche ideazioni paranoidi.

Io ho conosciuto anche ragazze che soffrivano di questo disturbo, anche se, come ci dicono le statistiche ufficiali, si riscontra molto di più nei maschi. Credo che questa differenza sia dovuta al fatto che è più frequente che siano i maschi ad occupare una posizione di preminenza nei gruppi di adolescenti e quindi a correre il rischio di decadere improvvisamente da un ruolo di leader.

[1] Mami Suwa e Koichi Hara, “Hikikomori” among Young Adults in Japan (PDF), in Medical and Welfare Research, vol. 3, 3 gennaio 2007, pp. 94-101, ISSN 1349-7863 (WC-ACNP).

[2] Stella Cervasi, Hikikomori, ovvero la malattia dei ragazzi, in La Repubblica, 14 febbraio 2013.

[3] Arianna De Batte, Hikikomori: m i nascondo per dirti che esisto,  su massacritica.eu, 4 luglio 2012.

[4] Arianna De Batte, Hikikomori: m i nascondo per dirti che esisto , su massacritica.eu, 4 luglio 2012.

Sonia Moretti, Hikikomori. La solitudine degli adolescenti giapponesi (abstract), in Rivista di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza, IV, n. 3, 2010, pp. 41-48, ISSN 1971-033X (WC-ACNP).

[5] Michael Zielenziger, Non voglio più vivere alla luce del sole. Il disgusto per il mondo esterno di una nuova generazione perduta, Elliot edizioni, 2008,ISBN 978-88.6192-022-4. 

[6] Dott. Rosalia Giammetta, Hikikomori: il ruolo dei genitori nella scelta di isolarsi dal mondo, su quipsicologia.it, 4 marzo 2013..

[7] Dott. Rosalia Giammetta, Hikikomori: il ruolo dei genitori nella scelta di isolarsi dal mondo, su quipsicologia.it, 4 marzo 2013..

[8] Ed Donner, The Long-Term Effects of sleeping with the children, 2 febbraio 2014.

[9] Colin Buchan Liddel, For Japanese men, dysfunction starts in the cradle, in Japan Today, 31 maggio 2008.

[10] Colin Buchan Liddel,For Japanese men, disfunction starts in the cradle,  in Japan Today, 31 maggio 2008.

[11]Michael Zielenziger, Non voglio più vivere alla luce del sole. Il disgusto per il mondo esterno di una nuova generazione perduta, Elliot Edizioni, 2008,ISBN 978-88-6192-022-4.   

[12] Honne and Tatemae, Two things that you need to know to understand how the Japanese mind works, su mynippon.com, 4 marzo 2013. 

[13] Michael Zielenziger, Non voglio più vivere alla luce del sole. Il disgusto per il mondo esterno di una nuova generazione perduta.

[14] Chiamo “binario” la tendenza causata da un’esperienza traumatica a ripetersi nel tempo.

Di Katia Bianchi, psicologa e psicoterapeuta.

Una visione estesa del fenomeno Hikikomori si trova più nelle opere di artisti che sulle schematizzazioni degli scienziati.

Come sempre, nella storia, gli artisti arrivano al nocciolo delle questioni molto tempo prima degli scienziati e riescono a descrivere sul piano analogico quello che le catene lineari del pensiero digitale non riesce a cogliere. Così è possibile che una visione estesa del fenomeno Hikikomori si trovi più nelle opere di artisti che sulle schematizzazioni degli scienziati. La figura dell’Hikikomori è talmente usata nei film, da essere diventata quasi uno stereotipo dei cartoni animati giapponesi (Anime).

Sempre più spesso, in queste opere, si affida all’Hikikomori il ruolo dell’eroe della storia e questa tendenza sembra avere una funzione terapeutica a livello sociale, favorendo lo sviluppo di atteggiamenti di accettazione e perfino di valorizzazione di questo modello di comportamento e della sua possibile funzione.

Una delle opere più significative in questo senso è il romanzo Welcome to the NHK di Tatsuhiko Takimoto, definitosi un hikikomori lui stesso. La sigla NHK indica l’associazione giapponese hikikomori  (Nihon Hikikomori Kyōiai). Tutta l’opera, trasposta successivamente in cartoni animati, è incentrata sulla lotta del protagonista Tatsuhiro Satõ  contro il suo destino di hikikomori. Satō soffre di fobia sociale, e il suo auto-isolamento è dovuto alla sua incapacità di rapportarsi in modo naturale con la società. Trovatosi improvvisamente in difficoltà economica a causa del mancato apporto dei genitori, egli sviluppa un legame di interdipendenza con Misaki, la ragazza che cerca di aiutarlo, simile a quello che si verifica tra madre e figlio.

Lo stesso tema ricorre nel cartone animato Neon Genesis Evangelion   di Hideaki Anno .  In quest’opera, il personaggio di Shinji ikari presenta un quadro comportamentale riconducibile a quello degli hikikomori, nella sua incapacità di relazionarsi con gli altri e nel suo rifiuto verso il mondo esterno, nell’atteggiamento compulsivo e l’assenza di una figura parentale positiva di riferimento. Perfetta trasposizione dell’incertezza sociale del Giappone di metà anni novanta, Shinji incarna lo spirito di una società giovane che soffre a causa dei cambiamenti sociali e i cui membri non sono in grado di affrontare il duro sistema educativo, la crescente instabilità del lavoro e la grande pressione sociale.

Nell’opera Ano Hana, il protagonista Jinta Yadomi diviene hikikomori a causa di un trauma subito in età infantile. In  Kami-sama no memo-chõ la protagonista Alice vive chiusa nel suo appartamento utilizzando Internet per rimanere in contatto con il mondo esterno. In La mia Maetel , il protagonista Shintarō Koizumi, auto-recluso da quindici anni, si innamora della propria matrigna.

Questi esempi non sono che alcuni, più significativi di un’ampia letteratura in merito.

Da un punto di vista simbolico, a me piace vedere l’Hikikomori come l’eroe prediletto del capo che improvvisamente viene ingiustamente ridefinito come un criminale o uno schiavo, degradato ed emarginato, nascosto al mondo, un po’ come Massimo Decimo Meridio nel film “Il gladiatore”. La cura è rendergli giustizia dei torti subiti, riconoscendoli, e aiutare il gladiatore a contare sulle sue reali risorse, a sperimentare quanto in realtà sia forte e coraggioso, quanto sia amato.

È significativo che nell’arte si realizzi proprio questa speciale funzione terapeutica.

Di Katia Bianchi, psicologa e psicoterapeuta.

Il Nuovo Faro, Numero 1 , Anno 2023: “La Solitudine”

Inserto di approfondimento sul ritiro sociale.

Il Nuovo Faro (ilnuovofaro) è un mensile che offre al mondo del disagio psichico la possibilità di far sentire la propria voce, nasce nel 2006 con l’idea di offrire un attracco sicuro a chi durante la vita si è trovato di fronte a tempeste tali da perdere il senso dell’orientamento. Riporta testimonianze, recensioni, racconti, poesie, in linea di massima attinenti a un tema che viene proposto di volta in volta.

In questo numero (Numero 1, Gennaio 2023), il tema è la solitudine e nella sezione “Inserto” si parla del fenomeno del ritiro sociale, che, con la solitudine ha uno stretto legame. L’inserto si apre con una breve descrizione del lavoro che compie la nostra associazione e degli obbiettivi che si prefigge, prosegue con la presentazione del fenomeno “Hikikomori” nei suoi vari stadi e si chiude con un paio di toccanti testimonianze di un padre e di una madre di ragazzi in ritiro sociale.

Si ringrazia vivamente la redazione de “Il Nuovo Faro” per l’opportunità che ci è stata offerta, opportunità che ci permette di diffondere la conoscenza di questo fenomeno che molto spesso viene sottovalutato, confuso e male interpretato. Ancora grazie.

Qui puoi scaricare l’inserto in formato PDF e il numero 1/2023 della rivista completa

In Giappone, che è stato il primo paese dove il fenomeno hikikomori ha assunto una forte rilevanza, si è cercato di affrontare questo problema fondamentalmente con due tipi di approcci.

In Giappone, che è stato il primo paese dove il fenomeno hikikomori ha assunto una forte rilevanza, si è cercato di affrontare questo problema fondamentalmente con due tipi di approcci, ricalcati anche in Italia:

  • l’approccio medico-psichiatrico, che consiste nel trattare la condizione come un disturbo mentale o comportamentale, trattando il ragazzo ritirato con ricovero ospedaliero, sedute di psicoterapia e cure psicofarmacologiche.
  • l’approccio basato sulla risocializzazione che guarda al fenomeno come a un problema di socializzazione piuttosto che come a una malattia mentale. Il ragazzo viene ospitato in una comunità alloggio, in cui sono presenti altri hikikomori, e messo in condizioni d’interagire al di fuori del suo sistema di relazioni. Sono apposite organizzazioni no profit che si propongono di aiutare coloro che trovano difficoltà a comunicare e a integrarsi nella società, migliorando la loro capacità di interagire in modo da renderli indipendenti dalla famiglia, attraverso l’assegnazione di piccoli incarichi o lavori. In genere sono i genitori a contattare tali organizzazioni e a far partecipare il figlio alle attività del programma, pagando una quota. Queste associazioni si propongono come un’estensione della famiglia e in questo senso prevedono anche la figura della cosiddetta “sorella in prestito”, che nei casi di particolare chiusura del giovane cerca di stabilire un contatto con lui e di convincerlo a uscire dalla sua stanza e a prendere parte al programma. Questo metodo lascia perplessi parecchi esperti a causa della scarsa formazione specifica dei volontari. Tali tipi di centri di recupero, chiamati free space o free school, hanno la caratteristica di essere strutturati come una normale scuola, con programmi didattici identici. La differenza consiste nella mancanza di distinzione dei ruoli gerarchici: i ragazzi in cura non indossano divise, non vengono usati titoli e nessuna informazione sul loro passato viene divulgata, contribuendo alla diffusione di un clima sereno all’interno del centro. Inoltre, per aiutare i ragazzi affetti da questo disturbo, è stata ipotizzata la possibilità di avvicinarsi a essi attraverso la costruzione di un rapporto di fiducia, ricostruendo le relazioni sociali tramite l’empatia e l’accettazione positiva incondizionata.
  • Una terapia alternativa è quella della telepsichiatria, una branca della telemedicina. Diffusasi inizialmente in Paesi con bassa densità demografica, ove per il medico il problema maggiore è quello di raggiungere l’abitazione del paziente, questo tipo di cura si è sviluppato grazie al progresso tecnologico, avvalendosi di connessione Internet, di webcam e computer e permettendo al medico curante e al paziente di interagire a distanza. Questa terapia, quindi, si sposa alla perfezione con il fenomeno hikikomori, permettendo di raggiungere le persone ritirate attraverso il loro unico sistema di mediazione con il mondo esterno. Tale sistema porrebbe le basi per la fine dell’auto-isolamento, consentendo al medico di erogare le prime cure del trattamento del disturbo.
  • La durata del percorso riabilitativo può variare da persona a persona, ma uno studio del 2014 condotto su 270 individui colpiti ha dimostrato che il lasso di tempo necessario perché uno hikikomori si riabitui al mondo esterno è in media di circa dodici anni. Un altro studio del 2003 evidenziava inoltre che dopo un breve periodo molti soggetti (circa il 23% su un campione di ottanta reclusi sociali) smettono di frequentare i centri di recupero per diversi anni. Non è detto comunque che gli ex hikikomori riescano a rientrare a pieno titolo nella società e nel mondo del lavoro, in quanto le aziende giapponesi sono molto restie ad assumere persone il cui curriculum presenti lunghi periodi di inattività lavorativa.

Di Katia Bianchi, psicologa e psicoterapeuta.

Come è noto, l’isolamento sociale volontario è un fenomeno che tende ad insorgere prevalentemente nella fase adolescenziale, ed è per questo motivo che il progetto si è rivolto principalmente a giovani in questa fascia di età.

Il Progetto di Solidarietà “relAzioni”, finanziato dal programma “Corpo Europeo di Solidarietà” e portato avanti da giovani del territorio con il supporto di YouNet APS (https://www.you-net.eu/), ente del terzo settore attivo nel campo della mobilità internazionale, delle politiche giovanili, euro-progettazione e inclusione sociale, è nato con l’obiettivo principale di aumentare il grado di consapevolezza all’interno della nostra comunità sul tema degli hikikomori o ritirati sociali, e in tal modo contribuire a prevenirne l’aumento.

Come è noto, l’isolamento sociale volontario è un fenomeno che tende ad insorgere prevalentemente nella fase adolescenziale, ed è per questo motivo che il progetto si è rivolto principalmente a giovani in questa fascia di età.

La fase di implementazione del progetto, recentemente conclusasi, ha infatti coinvolto un centinaio di studenti e studentesse di tre classi del Liceo Sabin (3R, 3T, 4N) e di quattro classi dell’Istituto I.I.S. Giordano Bruno (3CLD, 3DLB, 1DLB, 2CLB), ovvero due scuole Secondarie di Secondo Grado della città metropolitana di Bologna.

In una prima fase, studenti e studentesse, nonché docenti referenti, dirigenti scolastici, Comitato dei Genitori e operatori psicologi dello Sportello d’Ascolto, hanno partecipato a una serie di incontri di sensibilizzazione realizzati con modalità da remoto.

Con la preziosa collaborazione di Laura Calosso, scrittrice e giornalista d’inchiesta, Bruna Zani, presidente dell’Istituzione Gian Franco Minguzzi, Angela Berti, vice-presidente dell’associazione AMA Hikikomori APS, è stato sviscerato il fenomeno del ritiro sociale, sono state tracciate in maniera approfondita le caratteristiche di questo disagio adattivo sociale e sono stati offerti consigli e pratici suggerimenti per riconoscere e aiutare chi sta vivendo questo problema. Riflessioni e testimonianze, chiari riferimenti a situazioni vere, hanno inoltre aiutato a concretizzare questa realtà e a sensibilizzare i partecipanti, specialmente i giovani adolescenti.

Nello stesso tempo, un ulteriore evento di sensibilizzazione aperto alla comunità si è tenuto presso l’Officina polivalente delle arti e dei mestieri di Bologna – Camere d’Aria, realizzato con il patrocinio del quartiere San Vitale/San Donato, alla presenza della sociologa Marialuisa Mazzetti, la quale ha descritto il fenomeno del ritiro sociale mettendo in evidenza analogie e differenze nell’approccio a questo disagio esistenti tra la culturale italiana e quella giapponese.

Successivamente, studenti e studentesse del Liceo Sabin e dell’Istituto I.I.S. Giordano Bruno hanno partecipato in maniera attiva a una serie di laboratori condotti in modalità mista: online e in presenza. Hanno realizzato una rassegna stampa, ricercando sul web articoli e altri contenuti generici sul tema del ritiro sociale. Hanno approfondito pertanto il contenuto dei materiali trovati e infine hanno creato una serie di presentazioni Power Point impostate con una gerarchia di informazioni, da quelle che riportano una definizione corretta del fenomeno, a quelle che sono le fake news o parzialmente attendibili. Questa attività ha posto le basi per un lavoro di decostruzione delle notizie trovate che è stato condotto in presenza della psicologa e psicoterapeuta Katia Bianchi la quale, insieme alle colleghe sopracitate, ha sciolto i dubbi dei giovani adolescenti sul fenomeno del ritiro sociale, incertezze che, come evidenziato dall’attività laboratoriale, sono spesso alimentate dalla disinformazione che circola sul web.

In particolare, è stato chiarito ai giovani adolescenti che è un errore diagnosticare il disturbo del ritiro sociale come una psicopatologia o una sindrome, in quanto si tratta di un comportamento che vediamo in persone molto diverse l’una dall’altra, nonché giovani di culture, paesi, ambienti sociali diversi, il cui tratto comune è il ritiro, la spinta all’isolamento. In questa ottica, diventa fondamentale vedere qual è il loro vissuto personale, l’esperienza che li ha portati a isolarsi. Per farlo, bisognerebbe cercare di comprendere e non giudicare.

Un altro aspetto controverso, di cui si è discusso tanto con studenti e studentesse durante l’attività laboratoriale, riguarda la relazione tra i ritirati sociali e Internet. Poiché i media spesso ritraggono erroneamente gli hikikomori come ragazzi e ragazze dipendenti da internet, è stato dimostrato agli adolescenti che dipendenza da internet e ritiro sociale sono due realtà completamente diverse, che non si possono relazionare né identificare l’una nell’altra. Più volte è stato ribadito che il ritiro sociale nasce da una pulsione a stare separati dal resto della società, dagli amici. Non a caso il termine “hikikomori” significa stare in disparte. I ritirati sociali utilizzano Internet con uno scopo minimo di collegamento con la società. La tecnologia non è quindi la causa del ritiro sociale, ma è il filo che li mantiene collegati con il mondo esterno, nonché uno strumento che può aiutarli a recuperare la fiducia nel prossimo.

A studenti e studentesse coinvolti nel progetto “relAzioni” è stato consigliato, infine, di credere nella potenza della propria capacità di comunicare e di ascoltare. La comunicazione è infatti fondamentale per mantenere le relazioni. Purtroppo, è stato evidenziato che uno degli elementi che caratterizza i ritirati sociali è l’idea che nel mondo esterno non ci sia nulla per cui valga davvero la pena uscire. Ed è proprio in questa prospettiva che assume ancora più importanza la presenza degli amici, del gruppo dei pari, che possono aiutare i ritirati sociali a capire che il mondo è in fondo un posto migliore di quanto immaginano. In che modo? Basta essere presenti, ascoltare il silenzio altrui, riconoscendone suoni e molteplici sfaccettature, e condividere infine la gioia nel rivederli.

Dopo la conclusione del ciclo di laboratori che hanno coinvolto le classi selezionate del Liceo Sabin (3R, 3T, 4N) e dell’Istituto I.I.S. Giordano Bruno (3CLD, 3DLB, 1DLB, 2CLB), è stato inviato un questionario di valutazione a studenti e studentesse per rilevare il loro grado di soddisfazione riguardo il progetto di solidarietà “relAzioni”.

La maggior parte dei giovani ha dichiarato di sentirsi molto soddisfatta degli incontri a cui ha partecipato e di essere stata molto coinvolta emotivamente. I motivi sono tanti, come ad esempio:

  • comprendere in maniera approfondita il fenomeno;
  • identificarsi con il disagio vissuto da chi si chiude in stanza, indipendentemente dalla causa;
  • empatizzare con i ritirati sociali in virtù del periodo di pandemia recentemente vissuto

Ciò che questa esperienza ha lasciato agli adolescenti è la consapevolezza di star vivendo un periodo complesso della loro vita, dove la perseveranza nel cercare di aiutare gli altri può fare la differenza. I giovani hanno sviluppato anche la consapevolezza di aver vissuto un’esperienza formativa, dalla quale hanno ricavato risposte e conoscenze nuove: non c’è età per iniziare ad essere altruisti e responsabili verso il prossimo.

La fase conclusiva del progetto “relAzioni” è stata rappresentata dalla realizzazione di un evento finale in presenza a cura dell’associazione YouNet APS presso il Centro Sociale A. Montanari di Bologna. L’incontro ha coinvolto studenti e studentesse del Liceo Sabin (classi 3R, 3T, 4N), ed è stato un’occasione per mettere a sistema le conoscenze e le esperienze acquisite e rendere protagonisti i giovani, dedicando spazio alla presentazione dei prodotti finali che hanno creato a seguito degli incontri laboratoriali svolti, quali un podcast e una brochure divulgativa sul fenomeno del ritiro sociale.

Ampio spazio è stato infine dedicato alla discussione in gruppo, allo scambio di spunti di riflessione e alla restituzione in plenaria dell’esperienza. Rispetto agli stimoli e alle considerazioni che erano venute fuori nei precedenti incontri di sensibilizzazione e nei laboratori, si sono creati quattro tavoli di lavoro: per ogni gruppo di partecipanti è stato fornito un foglio recante una frase o parola chiave legata al tema del ritiro sociale su cui costruire una conversazione informale. Durante questa attività, si è registrato l’intervento di Angela Berti, vice-presidente dell’associazione AMA Hikikomori APS e della sociologa Marialuisa Mazzetti, le quali hanno stimolato maggiormente la riflessione all’interno dei gruppi su molteplici sfaccettature del fenomeno del ritiro sociale. L’attività si è conclusa con la restituzione in plenaria dei punti principali da parte dei giovani.

Le azioni del progetto “relAzioni” proseguiranno infine con la disseminazione, valorizzazione e diffusione degli ottimi risultati raggiunti. Questa esperienza ha posto le basi per lo sviluppo di nuove iniziative e progetti di prevenzione e sensibilizzazione al tema del ritiro sociale, sia a livello nazionale che internazionale.

Bernardo Puglia – Catia Scianguetta – Lorenzo Oretti – Nadia Carmela Russo

Qui puoi scaricare il testo completo del progetto RelAzioni

TITOLO.

Sotto titolo

Testo

Game Lab, socializzazione attraverso l’uso di giochi da tavolo e di ruolo (prima parte).

Il Game Lab nasce dall’idea di offrire un luogo fisico di incontro e di gioco a ragazzi che hanno vissuto l’esperienza dell’isolamento sociale e che hanno desiderio di tornare ad attività condivise in un contesto creativo e non giudicante. Di Salvatore Morabito.

Una premessa.
L’idea di un laboratorio di gruppo legato al gioco nasce dall’aver osservato in particolare un fattore nella mia esperienza con ragazzi in vario modo “ritirati” sociali: è possibile costruire una relazione di fiducia con loro come professionista, come adulto che comprende e si adatta al loro funzionamento.

A volte devi accettare di essere tu ad andare da loro, ad entrare in casa loro se non vogliono uscire (e se acconsentano che tu vada). A volte ti trovi a camminare nel loro quartiere, che è un luogo familiare, una zona di comfort, un’estensione della casa. Altre volte, con grande stupore, arrivano loro da te, la loro spinta all’autonomia o l’emergenza della sofferenza li spinge a prendere un autobus o ad arrivare a piedi al luogo dove lavori e a mantenere una certa costanza, come in una normale psicoterapia. Però una buona relazione terapeutica, un lavoro fatto in due che produce consapevolezza e abbassa angosce, non è detto che si traduca nella capacità di stare in relazione con un coetaneo o con un gruppo di coetanei, di cercarli, di far loro richieste, di affrontare le paure e le incertezze che un tempo passato insieme, a vicinanza fisica, quasi sempre fa scaturire.

Tu, adulto professionista, nel tuo setting di relazione a due, sai come rassicurarli, accogli le loro emozioni, tolleri silenzi e cerchi i tempi giusti per fare domande, non esprimi la rabbia anche la senti, accetti tutto, dosi con cura le tue parole e senti le emozioni scomode che queste possono far scaturire. Rispecchi e rassicuri.

L’incontro col coetaneo è invece più minaccioso, smuove pulsioni di vario tipo, può essere una vicinanza difficile che tocca le fondamenta di sé. Il coetaneo non si adatta ai tuoi bisogni e non è chiamato a farlo, risponde ai suoi di bisogni, parla di quello che vuole, di argomenti a volte paurosi o estranei, di un film horror, di come si bacia una ragazza o di cose che non possono interessarti minimamente e questo influisce sulla possibilità di sentirlo familiare e sulla voglia di tornare a vederlo.

Tanta instabilità, tanta intensità emotiva e tanto rischio di perdere il valore di sé attivano difese interne che possono ergersi e far loro sentire, letteralmente, che non ne vale la pena, che è tutto troppo forte. Quindi, fare un buon lavoro di psicoterapia, può non bastare per creare nuovi contatti e possibili legami fuori.

Un laboratorio di gioco da tavolo e di ruolo ha come presupposto proprio il rispetto di quelle difese dall’intensità della relazione con l’altro. Il suo presupposto è che si sta insieme due ore per giocare e a volte interpretare un ruolo di finzione. Non è richiesto parlare di sé, non è richiesto esporsi ma vi è la reale possibilità che se durante il gioco, o nelle sue pause, nasce un desiderio di esprimersi, di parlare, di domandare, questo può accadere.

Il messaggio implicito è: “Sai che sei qui per giocare ma giocando potrebbe succedere anche qualcos’altro, qualcosa di inaspettato”. Può succedere, una volta abbassate le difese e il controllo, che passino delle cose nuove tra mondo interno e mondo esterno. Può succedere che metti un po’ più di te nel mondo e fai un entrare un po’ di mondo in te, senza angosciarti.

La storia del gruppo.
Ho iniziato con questo presupposto, immaginandomi un piccolo gruppo di ragazzi che gioca insieme ed io con loro. Ho eliminato nel tempo le fantasie che per farli sentire più a loro agio servissero videogiochi o schermi, poiché sarebbe stato dar loro le stesse possibilità che hanno già a casa loro o online.

Al Game Lab ho voluto che si giocasse sia con oggetti materiali che con le immagini della propria mente e che si potesse fare l’esperienza dello sguardo degli altri su di sé e del proprio sugli altri. L’ambiente, sicuramente, si sarebbe caricato di proiezioni e di fantasmi e la speranza era che sulla mia persona i ragazzi potessero proiettare una figura rassicurante, un custode.

Ho sentito che partire con quattro ragazzi insieme avrebbe potuto essere troppo forte, quindi ho deciso di sviluppare gli incontri in maniera progressiva, con l’incontro tra due ragazzi, uno che conoscevo bene, col quale condividevo già 2 anni di lavoro terapeutico, e un altro, molto appassionato di giochi, di cui conoscevo i genitori. Con lui ho preso contatto via mail, poi via messaggio e poi l’ho invitato a conoscerci di persona al centro “Area Libera”.

E’ importante avere almeno un incontro preliminare con un ragazzo che non si conosce. Il senso è quello di guardarsi a vicenda e poi, che io possa avere la possibilità di spiegargli cosa succederà in gruppo, conoscere un po’ i suoi interessi, le cose che lo animano e lo rendono più loquace, per immaginarmi su quali argomenti potrebbe sentirsi competente e potrebbe spontaneamente condividere in gruppo.

Alla fine dell’incontro propongo una partita ad un gioco di carte abbastanza semplice con lui, per sperimentare in maniera più reale l’interazione, la sua capacità di capire le regole di un gioco, rispettarne i tempi, e per aver chiaro che la prima esperienza di gruppo possa esser possibile senza troppa ansia da prestazione e sotto lo sguardo altrui. Se non sono convinto richiedo un secondo incontro preliminare. Tutti i ragazzi di questo gruppo hanno fatto o fanno tuttora percorsi di psicoterapia.

Il primo incontro tra i primi due ragazzi ha avuto i suoi tempi di difesa (e di mia frustrazione). Al primo appuntamento, mi ritrovo da solo con uno di loro, al secondo appuntamento mi ritrovo solo con l’altro. Solo al terzo appuntamento vengono entrambi e, accettando tutti di sentire un po’ d’ansia nell’aria diventiamo un primo nucleo di gruppo.

Abbiamo provato un gioco collaborativo molto attuale, i partecipanti, ognuno con uno specifico ruolo, vivono il diffondersi di una pandemia mondiale devono debellare 4 malattie mortali che mettono a rischio gli abitanti della terra. La plancia è una mappa geografica, i nomi delle città sono reali, così come la loro densità abitativa.

La prima volta non ce l’abbiamo fatta, abbiamo fallito e fatto morire la popolazione mondiale. Ma era un gioco, nella realtà abbiamo visto che fallire insieme era tollerabile. Infatti i ragazzi sono tornati per il secondo incontro. Dopo poco più di un mese di incontri, e dopo aver provato altri scenari di gioco (come essere topi antropomorfi che si ritrovano imprigionati in un castello a sfuggire a gatti e insetti) ed aver costruito un primo senso di familiarità ed abitudine, abbiamo accolto il terzo ragazzo. Dopo altre due settimane, abbiamo accolto il quarto.

In parallelo i partecipanti sono stati aggiunti anche su un corrispettivo gruppo su Whatsapp, dove si possono dare comunicazioni, postare contenuti, domandare e sentirsi in relazione anche a distanza. A volte frammenti di discorso o citazioni di film e giochi emersi durante l’attività di gruppo vengono ripresi e condivisi in chat. E’ uno spazio a servizio del gruppo, di continuità, libero da usare o da non usare.

Sui giochi in gruppo.
I giochi di carte, da tavolo e di ruolo sono tanti, più di quelli che ci si possa immaginare. La scelta dei giochi può avere senso a vari livelli quando si gioca con ragazzi con difficoltà relazionali, in base ai momenti ed alle situazioni. Ci sono giochi di carte più semplici che è opportuno usare per rompere il ghiaccio negli incontri iniziali o quando un ragazzo accede per la prima volta al gruppo.

La situazione nuova, gli sguardi, portano con sé già un certo stress emotivo, quindi facilitare gli inizi con un gioco che non sia cognitivamente troppo impegnativo o troppo lungo come durata e che abbia regole chiare ed individuabili già dalla prima partita, è una scelta mirata all’accoglienza ed una forma di benvenuto.

I giochi da tavolo si dividono principalmente in competitivi e collaborativi, in quelli competitivi il giocatore punta da solo alla vittoria, in quelli collaborativi sono tutti i giocatori che insieme devono raggiungere obiettivi che danno loro la vittoria. Sono due esperienze di gioco differenti, che implicano processi interni e relazionali differenti.

Nel gioco competitivo si fanno pensieri e scelte in solitaria e si è mossi anche dal desiderio di vincere, di affermarsi sugli altri. Il bisogno di competizione è un normale vissuto personale, smuove vitalità, senso ed intenzioni verso una direzione, insegna a tollerare la fatica necessaria per raggiungere un obiettivo e ha come presupposto la possibilità di trovarsi in situazione di sconfitta e quindi la capacità di tollerare la frustrazione di non vincere, di aver fatto una fatica non premiata.

Nel gioco collaborativo, si è meno soli, si gioca per un obiettivo comune, ci si può sentire squadra e questo aumenta il vissuto di appartenenza. Si può riuscire o fallire insieme, a volte si fanno scelte di aiuto e difesa verso un altro giocatore. Nelle fasi iniziali di un gioco collaborativo, da un punto di vista psicologico, anche se può sembrare paradossale, i vissuti di competizione sono più presenti rispetto al gioco competitivo, la propria proposta riceve dei feedback, che possono essere favorevoli o no, si sente più la responsabilità di proporre un’azione che può andare male e far pagare la non riuscita a tutto il gruppo.

Fidarsi degli altri, affidare qualcosa di sé agli altri, richiede una perdita temporanea di controllo sulla realtà che può spaventare e può passare molto tempo perché un senso di fiducia trovi tante esperienze di conferma e si sedimenti dentro di sé. Osservata bene, quella di competizione è anche una dinamica interna: il vissuto del sentirsi giudicati è spesso un questione intrapsichica, sul gruppo o su uno dei suoi componenti si proietta una parte di sé giudicante. Lo sguardo dell’altro può diventare il veicolo del giudizio, anche se non vi sono effettivamente giudizi espressi a parole, o cattive occhiate.

Dopo alcuni mesi di giochi da tavolo a rotazione abbiamo provato un primo gioco di ruolo su una base semplice, costruendo un personaggio e con ambientandolo in un modo futuristico, in un’astronave. Ha accolto molto l’attività di 3 ragazzi, poiché uno si era già sperimentato in altre occasioni nel ruolo di master, che é il creatore dell’ambientazione e il conduttore della narrazione.

Il master crea la scena che i personaggi in gioco poi abitano e modificano con le loro azioni. Quindi armati di fogli, matite e dadi siamo partiti. E’ stata un’occasione di sperimentare e far capire a tutti cosa significa fare un gioco di ruolo. Dopo 4 incontri si è optato per un gioco più strutturato con ambientazione fantasy, i cui personaggi erano un paladino, un mago, un druido e un ladro. Ogni personaggio ha una scheda ed una serie di mosse specifiche per la categoria che rappresenta. Delle mappe disegnate dal master in alcuni casi sono state un utile supporto all’immaginazione.

La situazione di gioco di ruolo è più complessa rispetto al gioco da tavolo ma le opportunità per i ragazzi di sperimentare creatività, improvvisazione ed esposizione personale sono maggiori.

In tante situazioni ci si trova a dover decidere insieme cosa fare, quindi le proprie proposte personali incontrano il favore o i dubbi degli altri giocatori/personaggi. Si fa esperienza della bocciatura della propria proposta ma anche di potersi affidare alle proposte degli altri, la responsabilità è un carico da condividere in molte situazioni. Le mosse hanno poi un riscontro nei dadi, che decretano se l’azione è andata a buon fine oppure no. A volte, nell’ambiente si trovano nuovi equipaggiamenti, si decide chi li porta, si suddivide così il peso tra i personaggi del gruppo.

(continua…)

Salvatore Morabito è psicologo e psicoterapeuta di orientamento psicodinamico.
Vive e lavora a Bologna, dove svolge attività clinica con adolescenti ed adulti presso il suo studio privato e presso il centro “Area Libera” della cooperativa ASSCOOP.
www.morabitopsicologia.com

Due fiocchi di neve uguali

Il grido silenzioso delle nuove generazioni.

La reclusione forzata 2020/21 ha dato origine a molti problemi psicologici negli adulti, ma soprattutto negli adolescenti. I problemi che pre-esistevano sono peggiorati, come nel caso di #hikikomori. Le scuole mi chiamano per parlare di ritiro sociale nell’ambito della formazione docenti. Questo è l’ultimo incontro con alcuni istituti di Rimini e Cesena.

 

Dialogo con Miguel Benasayag

Dialogo con il filosofo e psicoanalista Miguel Benasayag sul ritiro sociale in adolescenza e sulla complessità del nostro tempo. L’intervista è stata realizzata in occasione del webinar “Planet Earth is Blue”.

Cenni sulla nascita del fenomeno e raffronto tra Italia e Giappone

Sia il suicidio che il ritiro sociale volontario tra i giovani e giovanissimi, hanno alla base diversi fattori, tra cui emerge la terribile pressione sociale esercitata su di loro.

Quando circa quarant’anni fa in Giappone sono apparsi i primi casi di ragazzi Hikikomori, letteralmente “stare in disparte”, il governo del Paese era alle prese con il fenomeno dei suicidi tra i giovani e questo fu sottovalutato, tra le varie ed eventuali. Nessuno poteva immaginare, allora, che quei ragazzi scomparsi dalla società fossero l’avanguardia di qualcosa destinato a durare nei decenni e ad esplodere, poi, fino ai numeri di oggi. Si parla di 1.600.000 persone scomparse dai radar della vita civile. Alcune di loro sono in ritiro da quei tempi e oggi il governo ha riconosciuto un sussidio sociale per consentirne la sopravvivenza, dal momento che stanno cominciando a perdere i genitori che li hanno supportati finché in vita.

Sia il suicidio che il ritiro sociale volontario tra i giovani e giovanissimi, hanno alla base diversi fattori, tra cui emerge la terribile pressione sociale esercitata su di loro. Questa non coinvolge solo l’aspetto del successo personale, comprensibile anche alle nostre latitudini, ma va a toccare la sfera dell’onore, che nella cultura nipponica è un concetto talmente sentito da superare quello della salvaguardia personale: il fallimento non è accettabile. Per chi fallisce, a qualunque livello, è più accettabile togliersi la vita e riparare cosi al disonore portato alla famiglia e alla società, che sopravvivere nella vergogna.

Il successo scolastico in Giappone, sin dalla primissima infanzia, è l’obbiettivo di ogni bambino. Mancarlo diventa un problema serio in seno alla famiglia. Con questi presupposti è chiaro quanto ai giovani non sia concesso nessun tentennamento, nessun passo falso. E quanto possa essere pesante reggere tanta pressione. Chi non riesce trova in queste due alternative una possibile via di uscita: il suicidio vero e proprio o il ritiro sociale volontario, come è stato tradotto il fenomeno in Italia. Questa condizione è anche descritto come “suicidio leggero” o “suicidio sociale”, perché chi vive questa condizione sparisce per la società.

Ne è altra causa dirompente il bullismo, ulteriore fonte di vergogna nei confronti dei compagni. Questo fattore accomuna i vissuti dei ragazzi giapponesi e italiani. La maggior parte dei casi di cui noi siamo a conoscenza ha subito fenomeni di bullismo da parte di compagni o insegnanti.

In Giappone il bullismo -ijime- rappresenta una vera e propria diffusa piaga sociale: diversi sondaggi riportano un tasso di oltre il 50% di ragazzi che ne restano vittime. In Italia i dati  Istat del 2017 riferivano una media del 27%, e nella nostra esperienza diretta, la maggior parte dei casi ha subito fenomeni di bullismo da parte di compagni e/o insegnanti.

Cos’è in effetti il ritiro sociale volontario? Quali sono le manifestazioni esteriori del fenomeno?

Eccone un breve accenno, che svilupperemo in post successivi.

Chi vive questa condizione, attraverso fasi graduali si allontana progressivamente da tutte le attività che implicano la relazione con l’altro: la scuola, lo sport, gli amici. Fino a rinchiudersi in casa e, nei casi più estremi, nella propria stanza. Tanto da non uscirne nemmeno per mangiare, se sa che in casa c’è qualcuno. Per questo, tra le manifestazioni più tipiche del ritiro sociale volontario c’è l’inversione del ritmo sonno/veglia: di notte il mondo si ferma e gli hikikomori possono tornare a vivere, liberi dal senso di vergogna che li opprime.

È evidente che tra la società giapponese e quella italiana ci sono differenze enormi, tanto che alcuni osservatori faticano ad accostare i due fenomeni, ma di sicuro possiamo vedere un elemento comune, e cioè la manifestazione esteriore del problema. Eppure anche in Italia il rendimento nello studio e il successo scolastico sono stati ingiustamente ritenuti come criteri principali del valore di un ragazzo.  La preminenza di questo criterio è diventata ancora più  dannosa , da quando la scuola è diventata sempre più confusionaria, ingiusta e senza autorità. I ragazzi se ne accorgono ma si sentono impotenti.

Questi ragazzi, sia in Giappone che in Italia e nel resto del mondo, ad un certo punto provano l’impulso irrefrenabile di sparire agli occhi del mondo. E se non trovano gli atteggiamenti corretti nelle persone che li circondano, rischiano di rimanere in quella condizione a vita, con le conseguenze immaginabili.

Di Angela Berti

Ringrazio Katia Bianchi, una dei nostri psicologi, Antonella Rogai, Luciano Melisi e Fabio Scalzotto, soci fondatori insieme a me, per l’aiuto nella scrittura  di questo post.

Foto di Mitul Shah di Burst

Il rapporto con la famiglia – concausa del ritiro.

Gli Hikikomori, nella forma attuale, sono in genere ragazzi con spiccate qualità d’intelligenza, sensibilità ai bisogni degli altri e senso di responsabilità, che occupano nell’infanzia una posizione sociale apprezzabile.

Tra le cause del ritiro sociale volontario troviamo il rapporto tra questi ragazzi e la famiglia. Molto spesso, nella esperienza accumulata in questi anni di frequentazione di famiglie accomunate da questa esperienza, abbiamo notato alcuni elementi ricorrenti.

Questi ragazzi sono persone con sensibilità particolarmente sviluppate, con una profonda repulsione verso le ingiustizie di ogni genere, anche sociali e una intelligenza frequentemente sopra la media. Le loro famiglie molto spesso sono famiglie normative, con una discreta base culturale ed economica. In seno a queste famiglie i buoni risultati scolastici dei figli sono attesi e dati per scontati, perché è ciò che ci si aspetta da ragazzi intelligenti.

Spesso sono famiglie in cui i ruoli genitoriali sono sbilanciati: madri molto/troppo presenti, padri molto/troppo assenti. I papà di questa epoca stanno ancora cercando quale sia esattamente il modo migliore per rivestire il ruolo. Hanno sperimentato nella maggior parte dei casi la figura paterna autoritaria e distante emotivamente, modello che oggi non può più funzionare, ma non hanno ancora scoperto come sostituirla.

Raggiunta una certa soglia della crescita di un bambino, questa assenza diventa problematica. Problema ancora più sentito se intorno non ci sono figure capaci di sostituirsi in qualche modo a quella paterna. infatti spesso si tratta di famiglie poco connesse con altri parenti o in cui la vicinanza non porta comunque relazioni amorevoli e costruttive. Sia che siano lontane fisicamente, sia che lo siano come forma mentale e affettiva, questa distanza rende impossibile la funzione per sostenere la crescita come esseri umani dei ragazzi. La mancanza di sostegno e di radici genera in loro una forma di fragilità che emerge soprattutto nel momento del passaggio tra infanzia e adolescenza. Quando iniziano da un lato gli sconvolgimenti fisici e ormonali legati alla crescita (il bambino non sa più chi è, non si riconosce più nel suo corpo e nemmeno nella irrequietezza che lo anima) e dall’altro c’è il passaggio verso la vita da adulto, con le maggiori responsabilità che comporta.

La scuola non “accudisce” quanto in passato, se si era stati fortunati…, e le aspettative di tutti si fanno più accese. I genitori sono consapevoli del passaggio critico legato alla scuola, da cui derivano, secondo il sentire comune, le prospettive di futura affermazione nella vita e nella società. Perciò focalizzano tutta la loro attenzione sul rendimento scolastico del figlio/a.

Tutto questo nel nostro mondo è particolarmente vero per i maschi, che infatti rappresentano una forte maggioranza tra i ritirati sociali volontari.

Molte volte questi ragazzi hanno un passato di eccellenza scolastica e sportiva o musicale e hanno così abituato i genitori a standard molto elevati. Tanto da finire per essere identificati con quegli standard e quando, per qualunque motivo, se ne scostano, il genitore focalizza più l’attenzione sul divario nel rendimento che sulle possibili cause scatenanti.

Il ragazzo percepisce la delusione e può sentirsi non compreso nelle sue difficoltà, provando rabbia verso i genitori per la loro insensibilità nei suoi confronti, oppure può iniziare a maturare un senso di inadeguatezza e di vergogna per non essere capace di soddisfare le aspettative della famiglia nei suoi confronti.

In ogni caso, inizia un processo di chiusura: verso la famiglia, la scuola, il mondo intero, che viene percepito come ostile e troppo richiedente per le proprie capacità di sopportazione.

Iniziano i giorni in cui andare a scuola diventa più difficile (ritardi sempre più frequenti, malesseri di ogni genere, assenze) e si sceglie di abbandonare anche ogni attività extra scolastica. Fino a smettere di frequentare persino gli amici più cari.

Questi sono i segnali premonitori inequivocabili di una propensione al ritiro sociale volontario. Vediamo quindi come la famiglia svolga un ruolo fondamentale nella generazione della situazione di reclusione e nel suo possibile evitamento.

Nella nostra esperienza, abbiamo capito quanto la capacità dei genitori di cambiare lo sguardo sui figli e il passaggio da controllori/giudici ad accompagnatori/educatori sia fondamentale per evitare che ciò accada.

Di Angela Berti.

Ringrazio Fabio Scalzotto, Luciano Melisi, Marina Mercuriali, Antonella Rogai e tutti i soci fondatori di AMA HIKIKOMORI APS per l’aiuto nella

Ritiro sociale – la solitudine della famiglia

Quando la famiglia si trova ad affrontare in completa solitudine, un problema enorme, apparentemente irrisolvibile, non solo fatica a raccapezzarsi e non sa dove sbattere la testa, ma trova al di fuori dell’ambiente domestico un muro di incomprensione, una pletora di persone pronte a giudicare e sputar sentenze.

“Ciao, come stai? Tutto bene?”
“Certo, tutto bene e tu?” – adesso mi domanderà dei figli… cosa rispondo?
“Da quanto tempo non ci vediamo, i tuoi figli saranno cresciuti ormai?” gelo….
“Eh si, maggiorenni da qualche anno….”
“Ma dai! E cosa fanno ora? Lavorano? Studiano?”
“Ehm, in realtà sono a casa con me, non fanno nulla di tutto ciò…” imbarazzo…
“Davvero? Come mai? Pensa, mio figlio si è appena laureato, mia figlia lavora già, il prossimo anno si sposa”.
“Sono davvero contento per te. Beh devo scappare ora. A presto, stammi bene!”

Quasi quotidianamente, se sei un genitore con un figlio/a in ritiro sociale ti ritrovi a dover affrontare pesanti situazioni come questa, che mettono a dura prova anche la persona più capace a sopportare pressioni di un certo tipo.

Quando incontri un parente, un conoscente, un vicino di casa sai già che sarai giudicato per quello che i tuoi figli stanno facendo (meglio dire che non stanno facendo); nel migliore dei casi vieni compatito, altrimenti devi subire attacchi frontali del tipo: “se fosse mio figlio lo sveglierei io”, “alla sua età lavoravo già da anni”, “può permettersi questa vita perché è mantenuto” e via discorrendo.

Non solo la famiglia si trova così ad affrontare in completa solitudine, un problema enorme, apparentemente irrisolvibile, non solo fatica a raccapezzarsi e non sa dove sbattere la testa, ma trova al di fuori dell’ambiente domestico un muro di incomprensione, una pletora di persone pronte a giudicare e sputar sentenze. Se per giunta, come molto spesso accade, i figli ti accusano di essere la causa del loro disagio, ecco che la frittata è fatta, sei allo sbando!

Inevitabilmente ti chiudi in te stesso, carico di frustrazione e vergogna per una situazione che tende a peggiorare sempre di più, in un vortice di solitudine e impotenza. Sei hai la fortuna di avere al tuo fianco un compagno o una compagna, cerchi lì un po’ conforto ma spesso non è così, al tuo fianco non c’è nessuno, oppure, se c’è, non capisce, è distante.

Allora ti interroghi su dove e quando hai sbagliato, ti chiedi se la tua presenza sia stata solo un mero supporto materiale, perchè non hai potuto, voluto entrare a fondo nella relazione coi tuoi figli. Ti domandi se c’è modo di riparare, oppure se ormai è troppo tardi. Intanto i sensi di colpa ti attanagliano, i rimpianti, i rimorsi ti ronzano in testa e rammenti quella volta che ti sei davvero comportato male con loro, oppure quando avresti potuto parlare e hai taciuto, abbracciare e ti sei ritirato.

Sembra che l’assenza (intesa non solo in senso materiale) di uno dei genitori sia una delle cause che portano i figli al ritiro sociale; l’esperienza mi ha portato a pensare che la causa più evidente sia il non corretto coinvolgimento emotivo da parte dei genitori (più sovente il padre) nei confronti dei i figli sin dalla tenera età, o meglio l’errata convinzione che, essendo bambini non dovessero essere coinvolti e presi in considerazione più dello stretto necessario (a ben guardare, anche questa può essere definita una forma di assenza). Soddisfare i loro bisogni materiali era l’attività primaria, con conseguente passaggio in secondo piano degli altri, ben più importanti bisogni, quelli affettivi ed emotivi. E così i figli crescono avvolti da una rassicurante solidità materiale ma da una altrettanto poco rassicurante incertezza emotiva, insomma materialmente tranquilli, emotivamente confusi, senza punti di riferimento e proiettati in un mondo che non riconoscono e non comprendono.

In questo scenario, dove i ruoli sono saltati e dove spesso, anche solo per frustrazione, un genitore accusa l’altro di aver abbandonato la famiglia; in questo scenario, quando il danno è fatto, la situazione è compromessa e i figli sono adolescenti se non addirittura adulti, la cosa più giusta da fare è cambiare passo, lasciarsi alle spalle il passato ed evitare recriminazioni di sorta nei confronti dei familiari, della società, del mondo intero. Insomma la cosa più giusta da fare è tentare una sorta di rinascita. Soprattutto l’atteggiamento verso la vita, verso i figli e verso gli altri deve mutare per poter sperare di uscire dal tunnel. Anche se il mondo là fuori non ci aiuta, anzi ci addita come falliti, incapaci di crescere i figli, nonostante ciò dobbiamo essere consapevoli che la via del cambiamento passa solo e soltanto da noi genitori. Siamo noi infatti, i primi a dover cambiare attitudine senza attendere che siano i figli a farlo; siamo noi che dobbiamo sentire nel profondo le loro esigenze, le loro sofferenze e comportarci di conseguenza, scevri da ogni influenza esterna. Senza questa consapevolezza, ogni via di uscita ci sarà preclusa.

Attorno a noi tutto sembra ostile e sono davvero poche le persone in grado di capire veramente il dramma che stiamo vivendo e offrirci quantomeno un sostegno morale, sono poche queste persone, ma bisogna saperle cercare.

Ecco perché i gruppi di auto mutuo aiuto sono così importanti: solo chi vive le tue stesse pene è in grado di comprendere, solo chi si trova nella tua stessa situazione riesce ad ascoltare senza giudicare, solo chi soffre come te non elargisce consigli ma comprensione. Nei gruppi di auto mutuo aiuto non c’è una storia uguale all’altra, ognuno ha il proprio vissuto, le proprie sofferenze, ma attraverso il confronto e la condivisione possono accadere miracoli.

La solitudine della famiglia è una morsa che non ti dà tregua, ma la si combatte solo aprendosi al dialogo, raccontandosi e ascoltando chi davvero comprende, condivide e vuole a sua volta aprirsi agli altri.

Di Fabio Scalzotto.

Hikikomori secondo la Nuova Medicina

Gli Hikikomori, nella forma attuale, sono in genere ragazzi con spiccate qualità d’intelligenza, sensibilità ai bisogni degli altri e senso di responsabilità, che occupano nell’infanzia una posizione sociale apprezzabile.

Giorni fa, qualcuno chiedeva, su un post che non riesco a ritrovare, cosa io ne pensassi del fenomeno degli Hikikomori, i ragazzi che si isolano dal mondo. Questo fenomeno si è diffuso a macchia d’olio negli ultimi anni, nelle società occidentali, cosiddette “evolute”, destando particolare preoccupazione. E’ stato così definito dai giapponesi, tra i quali pare che questo fenomeno sia particolarmente diffuso. Nella sua forma, non è un fenomeno nuovo. La novità è rappresentata dalla frequenza del fenomeno. Ricordo di aver trattato diversi casi di questo genere, fin dall’inizio della mia attività professionale, a partire dagli anni ’80. Nelle classificazioni nosografiche dell’epoca, come in parte nelle attuali, si parlava di fobia con ritiro sociale, di disturbo di evitamento con o senza attacchi d’ansia o di panico, eventualmente combinato con disturbo ossessivo o paranoide. Talvolta, associato al ritiro sociale, si trovava un disturbo depressivo, paranoico o schizofrenico.

Gli Hikikomori, nella forma attuale, sono in genere ragazzi con spiccate qualità d’intelligenza, sensibilità ai bisogni degli altri e senso di responsabilità, che occupano nell’infanzia una posizione sociale apprezzabile. Sono, all’origine, responsabili, efficienti nello studio, nello sport e nelle relazioni sociali, collaborativi con caratteristiche di generosa disponibilità ad aiutare gli altri. Si tratta di veri piccoli leader, che, all’improvviso, manifestano la drastica intenzione di ritirarsi dal mondo, rifiutando tutti i contesti sociali e chiudendosi anche con i familiari. Passano la maggior parte del tempo chiusi nella loro stanza, relazionandosi con la famiglia il minimo necessario alla sopravvivenza, senza dare spiegazioni. Spesso, se sollecitati dai familiari a spiegarsi o a cambiare la loro posizione, dichiarano la loro impotenza o si ribellano violentemente alle pressioni. Discussioni con i familiari, richiami a ragionare, punizioni o coercizioni da parte dei familiari esasperano la posizione di rifiuto delle relazioni. Generalmente, la richiesta d’aiuto viene dai familiari, perché gli Hikikomori si chiudono nei confronti di possibili aiuti. Da quando conosco la Nuova Medicina, ho cercato di analizzare questo fenomeno in termini di conflitti e di traumi. In ogni singolo caso sono partita da ogni sintomo per risalire al conflitto e quindi allo choc. La prima importante utilità di questo modo di raccogliere le informazioni diagnostiche è stata la possibilità di spostare l’attenzione dei genitori dagli aspetti valutativi della patologia del figlio su aspetti funzionali. Dicevo ai genitori: – Dite a vostro figlio che mi avete chiesto aiuto perché soffrite per lui, non sapete come aiutarlo né come gestire la vostra ansia nei confronti di quello che gli accade, senza tormentarlo. Ditegli che io vi ho detto che lui non è “fatto male”, carente o incapace, ma che gli è accaduto un terribile imprevisto, che lo ha fatto sentire isolato, escluso. Lui non è più debole degli altri, ha solo preso una tegolata così forte, che avrebbe forse ucciso altri meno forti di lui. Ditegli che io vi ho consigliato di non fargli pressioni e di restare in ascolto e che io sono disponibile ad aiutare voi a gestire le vostre emozioni nei suoi confronti.

Questa prospettiva contiene l’ansia dei genitori, diminuisce la pressione sul ragazzo, quindi anche la sua ansia e offre una spiegazione logica e funzionale delle cause del disturbo, che attenua i sentimenti di auto-svalutazione del ragazzo e quindi, la chiusura: lui non è più il problema dei familiari ma c’è un trauma che lui ha patito e di cui tutti stanno sperimentando gli effetti. Inoltre, il ragazzo è perfettamente in grado di riconoscere l’evento traumatico, che gli ha cambiato la vita ed è incuriosito dalla connessione tra questo e lo stato di conflitto attuale, perché la sente.

Questa connessione diminuisce la paura della diagnosi, la paura di essere dichiarato matto. E ora veniamo al trauma. In tutti i casi che ho potuto osservare, il trauma di base è quello di perdita del contatto fisico, che attiva un conflitto di separazione. In molti casi, si tratta di un binario di separazione, che tende a riattivarsi. In conseguenza del binario di separazione, questi ragazzi sono cresciuti come piccoli adulti: seri e responsabili, attivi e collaborativi, desiderosi di farsi apprezzare e di compiacere genitori e insegnanti, di aiutare i coetanei, spesso adottando un atteggiamento da maestro o da genitore.

Sono bambini parentificati. Fondamentalmente non si fidano degli adulti e li sostituiscono. Nel profondo c’è sempre la paura di essere abbandonati se non saranno perfetti, se non veglieranno sui loro cari. Nel profondo c’è sempre un’intensa rabbia per la separazione subita. Quando non c’è un binario, il conflitto di separazione si attiva nel momento del trauma recente all’origine del disturbo. Generalmente, lo choc scatenante è un’esperienza dove il ragazzo si sente ingiustamente accusato, di un’accusa infamante, che gli nega l’appartenenza al gruppo, lo sbalza dalla sua posizione nel gruppo, si sente “degradato” e allontanato.

Quando questa negazione dell’appartenenza avviene per un errore, per qualcosa che il ragazzo non è stato in grado di fare, si attiva, accanto al conflitto di separazione o sulla base del binario, un contemporaneo conflitto di autosvalutazione, per cui il ragazzo sente che non può rispondere alle aspettative degli altri, perché è un incapace, un fallito. Ho visto questo vissuto in un ragazzo, che, dopo aver seguito il corso di studi con eccellenza, prese un voto molto scadente all’esame di maturità. In altri casi, il conflitto di separazione si combina con un conflitto di attacco all’integrità, con un programma del derma diretto dal cervelletto.

Nella mia esperienza non osservo costellazioni di morte emozionale, piuttosto un’interazione tra un conflitto di separazione e un conflitto di attacco. Quest’interazione si vede quando al momento dello choc scatenante c’è l’esperienza di un’accusa infamante, di una calunnia degradante, offensiva, che deturpa e sporca l’immagine di sé, che compromette l’integrità, che costituisce un attacco fisico, come può accadere in caso di offese o dileggiamento per caratteristiche fisiche. Quando, con il conflitto di separazione si combinano conflitti dell’area del territorio, possiamo vedere, associate agli altri sintomi, anche manifestazioni depressive, se si è attivato un conflitto maschile di territorio (o femminile in una mancina), maniacali, come nel caso che lo choc scatenante sia rappresentato dalla perdita della ragazza o dalla perdita della posizione dominante in un gruppo.

Se con il conflitto di separazione si combina un conflitto di frustrazione sessuale femminile (o di territorio per un mancino), vedremo, associato agli altri sintomi, anche un certo grado di maniacalità. Se il conflitto di territorio è quello di rancore, quindi una delle emozioni vissute nel momento dello choc è la rabbia, avremo un ritiro sociale con manifestazioni di rabbia, che può anche diventare una risposta violenta ai tentativi di contatto o alle pressioni dei familiari, se il ragazzo si sente privato della sua identità e non sa più chi è rispetto agli altri, qual è il suo posto, come deve comportarsi con loro. Se si ha l’interazione di conflitti di paura frontale, quindi se il vissuto di choc è stato quello di un evento pauroso che non si può evitare, possiamo avere, combinati con il ritiro sociale, anche attacchi d’ansia o di panico e una continua aspettativa di disastri futuri. Se invece, durante l’esperienza di choc ci si è sentiti attaccati alle spalle, braccati, allora avremo anche ideazioni paranoidi. Io ho conosciuto anche ragazze che soffrivano di questo disturbo, anche se, come ci dicono le statistiche ufficiali, si riscontra molto di più nei maschi.

Credo che questa differenza sia dovuta al fatto che è più frequente che siano i maschi ad occupare una posizione di preminenza nei gruppi di adolescenti e quindi a correre il rischio di decadere improvvisamente da un ruolo di leader. Da un punto di vista simbolico, mi piace vedere l’Hikikomori come l’eroe prediletto del capo che improvvisamente viene ingiustamente ridefinito come un criminale o uno schiavo, degradato ed emarginato, nascosto al mondo, un po’ come Lucio Massimo Meridio nel film “Il gladiatore”. La cura è rendergli giustizia dei torti subiti, riconoscendoli, e aiutare il gladiatore a contare sulle sue reali risorse, a sperimentare quanto in realtà sia forte e coraggioso, quanto sia amato.

Di Katia Bianchi, psicologa e psicoterapeuta.

Condivido una mia esperienza personale

Capiì che se volevo cambiare mio figlio, prima dovevo cambiare io stesso.

Nel complimentarmi con tutto il gruppo, condivido una mia esperienza personale a beneficio dei papà che avranno la voglia di ascoltare e soprattutto il coraggio di cambiare in meglio.

Partiamo dall’inizio, sono stato un papà molto severo, come credo possa capitare a tanti imprenditori che spesso lavorano tanto/troppo e che poi scaricano in famiglia le tensioni.

Anche se la mia severità non è mai sfociata in violenza fisica, di sicuro ho fatto soffrire mio figlio con rimproveri eccessivi in frequenza ed intensità. Ho avuto la fortuna di essermi accorto per tempo di ciò che stavo facendo ma, da solo, non riuscivo a cambiare il mio modo di agire che ormai era diventato automatico e disfunzionale.

Anche grazie allo splendido e toccante film Wonder, vedendo il papà modello di quel film, che somigliava così tanto a degli amici in carne ed ossa che avevo intorno a me, desiderai anche io di essere come loro e capiì che se volevo cambiare lui per primo dovevo cambiare io.

Ho fatto sei mesi di lavoro su me stesso e ho avuto da subito dei benefici; benefici che poi sono aumentati nel tempo continuando ad applicare quanto appreso. Oggi posso dire che sono cambiato in meglio e tutta la mia famiglia ha avuto dei benefici per questo. Mi auguro davvero che questo mio racconto possa essere di ispirazione per qualcuno che ne ha bisogno e che questo possa migliorare la sua vita e quella della sua famiglia così come accaduto a me.

La nostra paura più profonda – Marianne Williamson

Liberiamoci delle nostre paure.

La nostra paura più profonda non è di essere inadeguati.
La nostra paura più profonda è di essere potenti oltre ogni limite.
È la nostra luce, non la nostra ombra, a spaventarci di più.
Ci domandiamo: chi sono io per essere brillante, pieno di talento, favoloso?
In realtà chi sei tu per NON esserlo?
Siamo figli di Dio.
Il nostro giocare in piccolo non serve al mondo.
Non c’è nulla di illuminato nello sminuire se stessi cosicché gli altri non si sentano insicuri intorno a noi.
Siamo tutti nati per risplendere, come fanno i bambini.
Siamo nati per rendere manifesta la gloria di Dio che è dentro di noi.
Non solo in alcuni di noi: in ognuno di noi.
E quando permettiamo alla nostra luce di risplendere, inconsapevolmente diamo agli altri la possibilità di fare lo stesso.
E quando ci liberiamo dalle nostre paure, la nostra presenza automaticamente libera gli altri.

Il ritiro sociale visto dal di dentro.

Testimonianza di un ragazzo di quarta liceo classico che è intervenuto ad un incontro organizzato dalla scuola per presentare il tema del ritiro sociale volontario.

Riportiamo la testimonianza di un ragazzo di quarta Liceo che è intervenuto ad un incontro organizzato dalla scuola per presentare il tema del ritiro sociale volontario.

“Volevo portare il punto di vista di qualcuno che è un po’ un hikikomori, che trova grandissima soddisfazione nella reclusione nella sua stanza, che soffre spesso soltanto nel camminare, nell’agire, nel parlare, nell’interagire con gli altri e nell’andare a scuola. Volevo portare un attimo il nostro punto di vista.

Adesso sono qui, sono rientrato a scuola da un paio di settimane, la mia reclusione è durata poco, soltanto tre mesi, perché mi sono sforzato, con l’aiuto delle persone che mi sono state vicino, di uscirne. Volevo parlarvi di come noi vediamo voi altri mentre andiamo in reclusione o pensiamo di andarci.

É sicuramente vero che la paura del giudizio in senso complessivo ci può tenere in casa, ma spesso è anche il nostro giudizio su tutti voi e con “tutti voi” mi riferisco a quelli delle nostre generazioni, ancora di più che agli adulti, a portarci a decidere di chiuderci in una stanza. Noi con la nostra sensibilità, spesso un po’ troppo sviluppata, osserviamo delle persone che ci circondano e che fanno alcune cose che ci deludono ancora prima di toccare noi stessi: ci deludono perché pensiamo che siamo anche noi degli esseri umani e vediamo gli esseri umani, altri esseri umani come noi, inserirsi in certi comportamenti. O meglio, vi spiego bene perché sono pochi e sono facili da capire.

Le nuove generazioni al giorno d’oggi hanno un altro tipo di reazione a questa iper competitivitá, a questo individualismo, e questa ipocrisia della società, che non è né il bullismo, né diventare un hikikomori. È l’atrofizzarsi dell’etica e della morale. Voi, tutti quanti, nel vostro percorso di crescita e di studi, familiare e scolastico, avete imparato a modo vostro, con le differenze specifiche dovute alle differenze di vita, cos’è il bene, cos’è il male, cos’è eticamente corretto, cosa è giusto fare, perché è giusto farlo.

Se prendo una persona di voi a caso, e le chiedo di dirmi cosa è giusto fare davanti ad una persona ferita, che sta male in strada, me lo sa sicuramente dire. Vorrei vedere quanti di voi davvero aiuterebbero una persona che magari è in strada e ferita per terra e quanti invece andrebbero oltre. Sono sicuro che, se anche per senso del dovere di fronte a delle persone direste: “mi fermerei ad aiutarla”, sinché avete qualcos’altro da fare nella vostra testa in quel momento, probabilmente tirereste dritto. Infatti è quello che vedo fare: se c’è una donna con un figlio che deve attraversare la strada con il semaforo rosso e non se n’è accorta, se c’è qualcuno che in bicicletta cade per terra in strada… io non vedo praticamente mai nessuno fermarsi ad aiutare e io stesso sono uno che di suo non va ad aiutare gli altri.

E noi, quando siamo li che siamo un po’ indecisi su cosa fare, se si parla di noi pre-hikikomori, vi osserviamo e vediamo come voi, voi “altri”, voi persone esattamente come noi, siate perfettamente in grado, pur conoscendo le emozioni, sapendo cosa è giusto, avendo una vostra percezione della società, ignorare completamente quelli che sono il precipitato della natura umana. Gli apriori non hanno bisogno della Religione o di qualcuno che vi venga a dire se sono giusti o sbagliati. Perché sono nati, sono stati inseriti nelle leggi e nella religione proprio perché erano già dentro la natura umana. Eppure in questa società individualista, ipercompetitiva, cattiva per certi versi e anche un po’ cinica, noi ce li dimentichiamo: noi tutti.

Noi li conosciamo, sappiamo cosa dobbiamo fare : è ok nella nostra testa e spesso, perché è necessario in quanto siamo umani, li applichiamo. Qualche volta abbiamo bisogno, per sentirci umani, di andare ad aiutare qualcuno, di fare una buona azione gratuita… ma è soddisfazione personale, non ci importa tanto il fatto che è una cosa giusta, quanto il fatto che ci rende più umani, ci permette di ignorare il male che facciamo a noi stessi e agli altri, ci dà una percezione di giustizia. Anche nell’errore e nella difficoltà, ci fa sentire più tranquilli.

E noi Hikikomori, o pre-hikikomori, guardiamo. Osserviamo. E ci chiediamo: “ma che cavolo di senso ha?!?”. Non solo competere per qualcosa che non sappiamo se possiamo raggiungere, ma che senso ha andare a competere in una società che non ci darà nessuna retribuzione morale, nessuna retribuzione emotiva. Noi, se anche riuscissimo a raggiungere, appunto, quell’”ideale” di 7 milioni di follower, di essere Ronaldo, o quel qualunque cosa ci mettiamo in testa come ipotetico obbiettivo sensato della nostra vita, sentiamo che noi dentro, al nostro interno, come soddisfazione, come esseri umani, non otterremo niente.

E allora non ha nessun senso andare avanti, non ha nessun senso lottare, tanto vale buttarsi su un letto, (io preferivo il divano, mi piaceva di più) … e stare a fissare il soffitto senza fare niente tutta la giornata. Magari saltando anche i pasti e rischiando di morire di fame. È chiaramente molto, molto più semplice che andare in un posto in cui nessuno ti apprezza, quelli che ti apprezzano non sei sicuro che lo facciano davvero e non lo facciano per senso del dovere… nessuno sembra essere, o se lo sembra, non pensi che sia per davvero dalla tua parte, e in cui alla fine non ti senti nulla.

Io ho fatto atletica per 10 anni della mia vita. Ho raggiunto dei buoni risultati, ero un mezzofondista, mi piacevano le distanze lunghe, 1000/2000 metri. Ho raggiunto dei buoni risultati… non si sentiva nulla nel raggiungerli. Io andavo li, facevo il mio, e le reazioni erano poche. Erano, o da mio padre, che lo riteneva normale e per lui non era minimamente importante; gli allenatori volevano che si desse di più; i compagni di squadra, o ti invidiavano, perché avevi dei risultati migliori dei loro, o ti ignoravano, perché eri un’altra persona ed essendo un’altra persona non c’era motivo di approcciarsi a te. In quel contesto li, anche se sei lì perché lo fai per te stesso, io mi sentivo, e per dialogo con altre persone so che anche altri si sono sentiti in situazioni simili… afflitti, afflitti da un senso di vuoto, di nulla degli altri, che andava ad alimentare il nostro.

Percepire il vuoto nelle azioni e nelle emozioni che gli altri dovrebbero e sembrerebbero provare, aumenta a dismisura il vuoto che abbiamo già noi dentro. Ed è per quello che andiamo a crollare, non soltanto perché abbiamo paura del giudizio, ma perché noi, giudicando voi, vi vediamo veramente… rotti come esseri umani. Non perché siate cattive persone. Perché la maggior parte delle persone non si comporta male, non è disonesta, ma non provate nulla nell’essere onesti o almeno non sembrate provare nulla nell’essere onesti. Non sembrate provare nulla nel fare la cosa giusta. Lo fate al massimo per senso del dovere, per sentirvi un po’ più umani, ma è una percezione veramente risibile.

Io sono una persona che da quando è nata è sempre stata lodata dagli altri per grande empatia, grande capacità di comprendere gli altri, (non mi sto vantando, è un dato di fatto, lo sostengono altre persone) ma io spesso sono arrivato a chiedermi dove sia andata questa empatia, questa capacità di comprendere gli altri, perché sono arrivato ad un certo punto a non capire nulla di cosa stessero pensando gli altri, anche se questo tipo di affermazione con me non si è mai fatta.

Qualche mese fa, a fronte di miei problemi personali, sono crollato definitivamente e ringrazio veramente quelli che hanno fatto un grande sforzo per ritirarmici fuori, ma perché non avevo ancora finito di isolarmi, ero ancora nelle fasi iniziali, avevo ancora qualche contatto con l’esterno. Va beh, volevo solo far sentire la voce di noi Hikikomori, cosa pensiamo noi prima di isolarci….