Esperienze di trattamento del fenomeno Hikikomori

In Giappone, che è stato il primo paese dove il fenomeno hikikomori ha assunto una forte rilevanza, si è cercato di affrontare questo problema fondamentalmente con due tipi di approcci, ricalcati anche in Italia:

  • l’approccio medico-psichiatrico, che consiste nel trattare la condizione come un disturbo mentale o comportamentale, trattando il ragazzo ritirato con ricovero ospedaliero, sedute di psicoterapia e cure psicofarmacologiche.
  • l’approccio basato sulla risocializzazione che guarda al fenomeno come a un problema di socializzazione piuttosto che come a una malattia mentale. Il ragazzo viene ospitato in una comunità alloggio, in cui sono presenti altri hikikomori, e messo in condizioni d’interagire al di fuori del suo sistema di relazioni. Sono apposite organizzazioni no profit che si propongono di aiutare coloro che trovano difficoltà a comunicare e a integrarsi nella società, migliorando la loro capacità di interagire in modo da renderli indipendenti dalla famiglia, attraverso l’assegnazione di piccoli incarichi o lavori. In genere sono i genitori a contattare tali organizzazioni e a far partecipare il figlio alle attività del programma, pagando una quota. Queste associazioni si propongono come un’estensione della famiglia e in questo senso prevedono anche la figura della cosiddetta “sorella in prestito”, che nei casi di particolare chiusura del giovane cerca di stabilire un contatto con lui e di convincerlo a uscire dalla sua stanza e a prendere parte al programma. Questo metodo lascia perplessi parecchi esperti a causa della scarsa formazione specifica dei volontari. Tali tipi di centri di recupero, chiamati free space o free school, hanno la caratteristica di essere strutturati come una normale scuola, con programmi didattici identici. La differenza consiste nella mancanza di distinzione dei ruoli gerarchici: i ragazzi in cura non indossano divise, non vengono usati titoli e nessuna informazione sul loro passato viene divulgata, contribuendo alla diffusione di un clima sereno all’interno del centro. Inoltre, per aiutare i ragazzi affetti da questo disturbo, è stata ipotizzata la possibilità di avvicinarsi a essi attraverso la costruzione di un rapporto di fiducia, ricostruendo le relazioni sociali tramite l’empatia e l’accettazione positiva incondizionata.
  • Una terapia alternativa è quella della telepsichiatria, una branca della telemedicina. Diffusasi inizialmente in Paesi con bassa densità demografica, ove per il medico il problema maggiore è quello di raggiungere l’abitazione del paziente, questo tipo di cura si è sviluppato grazie al progresso tecnologico, avvalendosi di connessione Internet, di webcam e computer e permettendo al medico curante e al paziente di interagire a distanza. Questa terapia, quindi, si sposa alla perfezione con il fenomeno hikikomori, permettendo di raggiungere le persone ritirate attraverso il loro unico sistema di mediazione con il mondo esterno. Tale sistema porrebbe le basi per la fine dell’auto-isolamento, consentendo al medico di erogare le prime cure del trattamento del disturbo.

La durata del percorso riabilitativo può variare da persona a persona, ma uno studio del 2014 condotto su 270 individui colpiti ha dimostrato che il lasso di tempo necessario perché uno hikikomori si riabitui al mondo esterno è in media di circa dodici anni. Un altro studio del 2003 evidenziava inoltre che dopo un breve periodo molti soggetti (circa il 23% su un campione di ottanta reclusi sociali) smettono di frequentare i centri di recupero per diversi anni. Non è detto comunque che gli ex hikikomori riescano a rientrare a pieno titolo nella società e nel mondo del lavoro, in quanto le aziende giapponesi sono molto restie ad assumere persone il cui curriculum presenti lunghi periodi di inattività lavorativa.

Di Katia Bianchi, psicologa e psicoterapeuta.