Ipotesi sulle cause del fenomeno “HIKIKOMORI”

Alcuni psichiatri giapponesi hanno ipotizzato che il ritiro sia dovuto all’aggravarsi di disturbi preesistenti, che influenzano il comportamento sociale, come i disturbi pervasivi dello sviluppo o i disturbi dello spettro autistico, esasperati da pressioni sociali e culturali, che sollecitano alla competitività e all’omologazione.

Lo studio di Mami Suwa e Koichi Hara, del 3 gennaio 2007[1] sulla correlazione tra condizione di ritiro sociale volontario e presenza di disturbi mentali secondari, ha rilevato, su un campione di ventisette ragazzi Hikikomori, la presenza di un alto disturbo pervasivo dello sviluppo in cinque casi, depressione, disturbo ossessivo-compulsivo, disturbo della personalità e lieve deficit cognitivo in dodici casi, mentre in 10 casi non hanno riscontrato nessun disturbo mentale secondario.

Un’altra causa del ritiro sociale è stata rilevata nel pesante carico di responsabilità delle aspettative della società e della famiglia, che pretende che i giovani siano eccellenti negli studi fin da molto piccoli e vincenti nella professione. La scelta Hikikomori potrebbe essere, secondo questa ipotesi causale, una forma di resistenza alla forte spinta all’autorealizzazione e al successo, che fa vivere ogni errore o insuccesso come un grave fallimento e una delusione data ai familiari. Secondo quest’ipotesi, l’auto-isolamento può essere un modo di dire “no” al conformismo, all’omologazione e alla competizione, che rappresentano sollecitazioni molto forti nella società giapponese e in tutto l’occidente industrializzato.

Un altro fattore causale potrebbe essere la crisi in cui versano queste società, nonostante la loro spinta alla competizione e all’efficienza, tanto che i giovani non vedono più un futuro, non hanno la garanzia che il loro impegno nella formazione garantisca loro un lavoro remunerativo o decoroso, come è stato per i loro genitori. Perciò molti adolescenti e giovani possono sentire che i loro sforzi sono inutili e possono cercare di affermare la propria identità nel nascondersi, nel fuggire dalla realtà e dalle proprie responsabilità. Mentre i loro padri possono godere ancora di un impiego a vita, i giovani che entrano nella società dopo la scuola non possiedono tali garanzie nel mercato del lavoro. A causa di questo, molti giovani incominciano a sospettare che il sistema posto in essere per i loro padri e nonni non funzioni più, e per alcuni, la mancanza di un obiettivo di vita chiaro li rende suscettibili al ritiro sociale come hikikomori.

Un altro fattore causale è stato trovato nell’inasprimento delle relazioni sociali tra adolescenti e tra le persone in genere, un deterioramento delle relazioni umane, diventate sempre più cariche di aggressività e violenza. Tra gli adolescenti si sono diffuse drammaticamente forme di bullismo. Questo mette i ragazzi di fronte alla necessità di difendersi con la stessa violenza con cui si viene aggrediti. Molti ragazzi si sentono disarmati in queste situazioni e molti di quelli che sono capaci di difendersi si possono trovare nella condizione di essere accusati, puniti per essersi difesi. Delle relazioni di questo genere, con le esperienze che comportano, possono facilmente generare disturbi d’ansia, fobia sociale, agorafobia, attacchi d’ira e comportamenti impulsivi. 

 La vittima di bullismo si sente facilmente inadeguato, incapace di affrontare le relazioni, quindi potrebbe facilmente decidere di isolarsi dalle attività scolastiche e dalla società stessa, vissuta come violenta e ingiusta. In questo senso, la reclusione può sembrare l’unico modo per manifestare il proprio dissenso o il proprio disagio rispetto alla società e alle sue norme. 

Anche la timidezza può svolgere un ruolo nell’insorgenza di hikikomori. Questo stato può portare a situazioni in cui il ragazzo colpito dal disturbo arrivi a provare vergogna o si senta ferito nell’orgoglio per situazioni che, in uno stato d’animo regolare, risulterebbero facilmente sopportabili. Nei peggiori dei casi, questa situazione può evolvere in una manifestazione di disturbi paranoidi, i quali possono contribuire ad accrescere la possibilità di isolamento sociale.

Secondo i ricercatori giapponesi, un fattore suscettibile di aggravare e prolungare lo stato di ritiro sociale sta nel fatto che la maggior parte delle famiglie aspetta anche molto tempo prima di chiedere aiuto, sperando che il figlio possa risolvere il problema da solo. In quest’attesa gioca un ruolo importante la vergogna provata dal figlio Hikikomori per la delusione data ai genitori, che risuona con la vergogna provata dai genitori per avere un figlio, che resta indietro rispetto agli altri, un figlio che “non è normale”.

Secondo alcuni studi, anche la capacità economica della famiglia, che permette di mantenere un figlio isolato in casa per lungo tempo, è un fattore importante, che incide sul fenomeno del ritiro sociale. Infatti, nelle famiglie a basso reddito, un figlio che lascia la scuola si deve inserire nel mondo del lavoro, per cui, se inizia a manifestare un comportamento d’isolamento, questo tende a risolversi in tempi brevi. In queste condizioni, il disagio interiore, che non si può manifestare nell’isolamento, sfoga in altri modi, ad esempio nell’abuso di sostanze, nei comportamenti impulsivi o violenti, in varie forme di difficoltà nelle relazioni.

Un fattore che gli studi giapponesi hanno messo in relazione col fenomeno Hikikomori è il modello di relazioni familiari[2] più comune nelle famiglie giapponesi, dove il padre, impegnato prevalentemente nelle attività lavorative, tende a disimpegnarsi dalle questioni che riguardano le relazioni con i figli, delegandole alla madre. Il padre, poco presente, tende a conservare un ruolo di controllo, di autorità, di valutazione e giudizio, esercitando una funzione di potere sui figli, piuttosto che di condivisione e di partecipazione affettiva. In questo contesto, si può vedere la chiusura e il ritiro del figlio come un’estrema conseguenza dell’identificazione col padre e della sua assenza emozionale e come una forma di estrema ribellione nei confronti dell’organizzazione sociale e del modello paterno.

All’assenza e anaffettività del padre, fa riscontro, in questo sistema di relazioni, un’eccessiva e irrisolta dipendenza dalla madre, che rende difficile ai ragazzi lo sviluppo di comportamenti autonomi[3].

A sostegno di quest’ipotesi, si osserva che questo fenomeno si verifica prevalentemente in adolescenti maschi con madri troppo ansiose e opprimenti[4] in situazioni in cui il peso dell’educazione e del mantenimento dei figli ricade esclusivamente su queste ultime, le quali nel 95% dei casi ne assecondano l’isolamento[5]. Il rischio che i figli rimangano in un rapporto di simbiosi con la madre è accresciuto dall’assenza del padre, che di rado interviene in funzione di separazione tra madre e figlio[6].

Gli studiosi giapponesi hanno osservato, come comportamento tipico della madre Hikikomori, quello di appoggiare e di non interferire con l’operato del figlio, senza disturbarlo e senza indagare sul motivo del suo malessere, nell’attesa che la situazione ritorni alla normalità. In questo modo l’isolamento, col passare del tempo, diventa totale, passando da momenti di dipendenza a momenti di forte aggressività, che possono sfociare in casi di violenza verso la madre[7].

Secondo le osservazioni degli studiosi giapponesi, è frequente che i bambini continuino a dormire nel letto dei genitori anche fino a 10 anni[8] e che mantengano uno stato di dedizione, soggezione alla madre, che influenza poi tutte le altre relazioni adulte. La madre giapponese contemporanea, inoltre, ha sviluppato un forte sentimento di iperprotettività verso il figlio, causato, oltre all’assenza del marito, dal desiderio di proteggere il primo dalle aspettative che la società e la stessa famiglia hanno riposto in esso[9].

Da un punto di vista sistemico e specificamente di psicologia dei sistemi umani, possiamo osservare che la relativa assenza del padre dalle relazioni familiari e la totale delega alla madre della gestione delle relazione coi figli, oltre a determinare un’iperfunzione della madre, con relativi vissuti di solitudine e mancanza di sostegno affettivo e pratico, genera nel figlio adolescente la necessità di sostituire la figura paterna, di rinunciare al suo ruolo di figlio per rendersi autonomo dai legami familiari e porsi al fianco della madre in funzione di partner. Il figlio parentificato non riesce a liberarsi dalla dipendenza dalla madre e, nello stesso tempo, vive un intenso conflitto tra la fedeltà e soggezione alla madre e il bisogno di autonomia. Il ragazzo adolescente, che resta accanto alla madre in funzione di partner, deve mettere d’accordo dentro di sé la parte infantile che resta soggetta alla madre e la proiezione del padre, che lui deve sostituire. Questo ragazzo oscilla tra il bisogno di compiacere e obbedire la madre e il bisogno d’imporsi a lei come farebbe il padre, perché lui vive la sua funzione adulta come quella dell’uomo di casa. Questo conflitto può diventare drammatico nel rapporto con la madre ma può anche alimentare una forte conflittualità, più o meno latente e rimossa oppure espressa ed aperta, col padre e con tutte le figure che rappresentino l’autorità.

Un fattore culturale che, secondo gli studiosi giapponesi, incide sulle cause del fenomeno Hikikomori  è rappresentato dal ruolo di fondamentale importanza che, nella loro cultura, ha l’aspettativa sociale che una persona esprima in pubblico solo comportamenti, atteggiamenti, sentimenti, emozioni ed opinioni consone alle aspettative della società e della famiglia in quelle circostanze e nella propria posizione sociale, nascondendo agli altri e talvolta anche a se stessi i desideri profondi, le emozioni, pensieri e opinioni che sarebbero sentiti dissonanti rispetto alle aspettative[10]. L’esistenza di questi due aspetti della vita giapponese comporta la presenza di un doppio registro psichico nei giapponesi[11], i quali anche se talvolta contrari alle regole della società, debbono rispettarle per salvaguardare l’armonia del gruppo. La ricerca di consonanza con gli altri conduce spesso a trascurare e rimuovere le proprie emozioni e sentimenti reali, quindi a chiudersi in sé, a rinunciare ad esprimere sentimenti, emozioni ed opinioni personali, allo scopo di evitare qualsiasi conflitto nelle relazioni[12]. Molti ragazzi hanno difficoltà a mantenere questa dicotomia di comportamenti e questa difficoltà potrebbe incoraggiare l’isolamento e il ritiro. In effetti, la repressione e rimozione delle emozioni e dei sentimenti vissuti, la rinuncia ad esprimere le proprie opinioni e vissuti, per conformarsi a un’immagine “di facciata” è uno dei più comuni fattori di ansia. Proprio per tenere sotto controllo la tendenza dell’ansia ad aumentare fino a diventare ingestibile, si è portati ad isolarsi fisicamente da tutte le situazioni che, attivando emozioni, in condizioni di chiusura e di blocco emotivo, generano ansia. Quindi è pensabile che questa riluttanza generi disturbi della comunicazione, che possono esitare nei comportamenti d’isolamento e ritiro sociale[13].

 Secondo lo psicoterapeuta Yuichiri Hattori, gli hikikomori, costretti come tutti i giapponesi ad adottare tali sentimenti di facciata fin da piccoli, non sono più in grado di liberarsene in favore della loro autentica personalità, con conseguenti problemi nel loro sviluppo emotivo. Secondo Hattori infatti essi temono la possibilità che mostrare i loro veri sentimenti possa pregiudicare i rapporti sociali con gli altri, forzandoli ad adottare una personalità di facciata in grado di uniformarsi al resto della società. Tuttavia, la maggior parte di essi non resiste a questa pressione, finendo per crollare emotivamente.

 

L’ipotesi dell’origine traumatica

Dalle teorie sul trauma impariamo metodiche, che ci permettono di individuare i traumi patiti a partire dai sintomi, dai vissuti e dai comportamenti attuali. Nel mio lavoro di supporto nei gruppi di mutuo aiuto dei genitori dei ragazzi ritirati, ho cercato di comprendere, dalle loro descrizioni dei comportamenti, delle espressioni e comunicazioni dei loro figli, quali traumi questi potessero aver subito e quali conflitti questi traumi avessero attivato dentro di loro. In ogni singolo caso, sono partita da ogni singolo sintomo di sofferenza e disagio per individuare le “coordinate” del trauma.

 La prima importante utilità di questo modo di raccogliere le informazioni diagnostiche è stata la possibilità di spostare l’attenzione dei genitori dagli aspetti valutativi della patologia del figlio su aspetti funzionali. Dicevo ai genitori: – Dite a vostro figlio che mi avete chiesto aiuto perché soffrite per lui, non sapete come aiutarlo né come gestire la vostra ansia nei confronti di quello che gli accade, senza tormentarlo. Ditegli che io vi ho detto che lui non è “fatto male”, carente o incapace, ma che gli è accaduto un terribile imprevisto, che lo ha fatto sentire isolato, escluso. Lui non è più debole degli altri, ha solo preso una tegolata così forte, che avrebbe forse ucciso altri meno forti di lui. Ditegli che io vi ho consigliato di non fargli pressioni e di restare in ascolto e che io sono disponibile ad aiutare voi a gestire le vostre emozioni nei suoi confronti, per evitare che si scarichino in forma di preoccupazioni e pressioni su di lui. 

Questa prospettiva contiene l’ansia dei genitori, diminuisce la pressione sul ragazzo, quindi anche la sua ansia e offre una spiegazione logica e funzionale delle cause del disturbo, che attenua i sentimenti di auto-svalutazione del ragazzo e quindi, la chiusura: lui non è più il problema dei familiari ma c’è un trauma che lui ha patito e di cui tutti stanno sperimentando gli effetti. Inoltre, il ragazzo è perfettamente in grado di riconoscere l’evento traumatico, che gli ha cambiato la vita ed è incuriosito dalla connessione tra questo e lo stato di conflitto attuale, perché la sente. Questa connessione diminuisce la paura della diagnosi, la paura di essere dichiarato matto.

E ora veniamo al trauma. In tutti i casi che, direttamente o indirettamente ho osservato, ho sempre potuto riscontrare l’esistenza di un grave trauma o di una situazione traumatica, dove il ragazzo è stato sottoposto a continue esperienze traumatiche o ha sperimentato una situazione di grande conflittualità generata dall’esperienza traumatica.

Nelle persone ritirate che ho conosciuto direttamente e attraverso i familiari, troviamo sempre dei traumi, per lo più vissuti in ambiente scolastico, in occasione dei quali la persona si è sentita svalutata, derisa, bullizzata o sottoposta a pressioni esagerate al rendimento e al successo. Sono frequenti le esperienze di esclusione da parte del gruppo di compagni o di svalutazioni da parte di insegnanti, quando non addirittura esperienze di aggressioni e minacce.

Talvolta si tratta di traumi complessi, esperienze traumatiche precoci, che si sono ripetute nella stessa forma più volte nel corso della vita. In genere, i ragazzi che hanno avuto queste esperienze di successioni di traumi o di situazioni traumatiche sono quelli che, insieme ai comportamenti di chiusura e ritiro, manifestano anche altri sintomi psichici. In altre situazioni, possiamo individuare un trauma accaduto qualche tempo prima del ritiro. Questo si riscontra negli Hikikomori “puri”, quei ragazzi ritirati che non manifestano altri disturbi più specifici.

In tutti i casi che ho potuto osservare, il trauma di base è quello di perdita del contatto fisico, che attiva un conflitto di separazione. In molti casi, si tratta di un binario[14] di separazione, che tende a riattivarsi o, detto in altri termini, di un trauma infantile, che ha prodotto un disturbo dell’attaccamento con le figure di riferimento, che rappresenta una predisposizione a rivivere altre esperienze di separazione nel corso della vita. In conseguenza del binario di separazione, questi ragazzi sono cresciuti come piccoli adulti: seri e responsabili, attivi e collaborativi, desiderosi di farsi apprezzare, di compiacere genitori e insegnanti, di aiutare i coetanei, spesso adottando un atteggiamento da maestro o da genitore. Sono bambini parentificati. Fondamentalmente non si fidano degli adulti e li sostituiscono. Nel profondo c’è sempre la paura di essere abbandonati se non saranno perfetti, se non veglieranno sui loro cari. Nel profondo ci sono sempre un’intensa rabbia e un dolore per la separazione subita.

Quando non c’è un binario, il conflitto di separazione si attiva nel momento del trauma recente all’origine del disturbo. Generalmente, lo choc scatenante è un’esperienza dove il ragazzo si sente ingiustamente accusato, di un’accusa infamante, che gli nega l’appartenenza al gruppo, lo sbalza dalla sua posizione nel gruppo, si sente “degradato” e allontanato. Quando questa negazione dell’appartenenza avviene per un errore, per qualcosa che il ragazzo non è stato in grado di fare, si attiva, accanto al conflitto di separazione o sulla base del binario, un contemporaneo conflitto di autosvalutazione, per cui il ragazzo sente che non può rispondere alle aspettative degli altri, perché è un incapace, un fallito. Ho visto questo vissuto in un ragazzo, che, dopo aver seguito il corso di studi con eccellenza, prese ingiustamente un voto molto scadente all’esame di maturità.

In altri casi, il conflitto di separazione si combina con un conflitto di attacco all’integrità, che interagisce con il conflitto di separazione. Quest’interazione si vede quando al momento dello choc scatenante c’è l’esperienza di un’accusa infamante, di una calunnia degradante, offensiva, che deturpa e sporca l’immagine di sé, che compromette l’integrità, che costituisce un attacco fisico, come può accadere in caso di offese o dileggiamento per caratteristiche fisiche.

Quando, nel momento del trauma, la persona ha vissuto l’esperienza della perdita di un amico, della ragazza, la perdita della posizione dominante o del suo ruolo in un gruppo, accanto ai sintomi della separazione, possiamo trovare anche quelli legati al comportamento territoriale. In questo caso, possiamo vedere, associati al comportamento di auto-esclusione, anche un certo grado di disturbi depressivi o maniacali.

Se una delle emozioni prevalenti vissute nel momento dello choc è la rabbia, avremo un ritiro sociale con manifestazioni di rabbia, che può anche diventare una risposta violenta ai tentativi di contatto o alle pressioni dei familiari, se il ragazzo si sente privato della sua identità e non sa più chi è rispetto agli altri, qual è il suo posto, come deve comportarsi con loro.

Se il vissuto di choc è stato quello di un evento pauroso che non si poteva evitare, possiamo avere, combinati con il ritiro sociale, anche attacchi d’ansia o di panico e una continua aspettativa di disastri futuri. Se invece, durante l’esperienza di choc ci si è sentiti attaccati alle spalle, braccati, allora avremo anche ideazioni paranoidi.

Io ho conosciuto anche ragazze che soffrivano di questo disturbo, anche se, come ci dicono le statistiche ufficiali, si riscontra molto di più nei maschi. Credo che questa differenza sia dovuta al fatto che è più frequente che siano i maschi ad occupare una posizione di preminenza nei gruppi di adolescenti e quindi a correre il rischio di decadere improvvisamente da un ruolo di leader.

[1] Mami Suwa e Koichi Hara, “Hikikomori” among Young Adults in Japan (PDF), in Medical and Welfare Research, vol. 3, 3 gennaio 2007, pp. 94-101, ISSN 1349-7863 (WC-ACNP).

[2] Stella Cervasi, Hikikomori, ovvero la malattia dei ragazzi, in La Repubblica, 14 febbraio 2013.

[3] Arianna De Batte, Hikikomori: m i nascondo per dirti che esisto,  su massacritica.eu, 4 luglio 2012.

[4] Arianna De Batte, Hikikomori: m i nascondo per dirti che esisto , su massacritica.eu, 4 luglio 2012.

Sonia Moretti, Hikikomori. La solitudine degli adolescenti giapponesi (abstract), in Rivista di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza, IV, n. 3, 2010, pp. 41-48, ISSN 1971-033X (WC-ACNP).

[5] Michael Zielenziger, Non voglio più vivere alla luce del sole. Il disgusto per il mondo esterno di una nuova generazione perduta, Elliot edizioni, 2008,ISBN 978-88.6192-022-4. 

[6] Dott. Rosalia Giammetta, Hikikomori: il ruolo dei genitori nella scelta di isolarsi dal mondo, su quipsicologia.it, 4 marzo 2013..

[7] Dott. Rosalia Giammetta, Hikikomori: il ruolo dei genitori nella scelta di isolarsi dal mondo, su quipsicologia.it, 4 marzo 2013..

[8] Ed Donner, The Long-Term Effects of sleeping with the children, 2 febbraio 2014.

[9] Colin Buchan Liddel, For Japanese men, dysfunction starts in the cradle, in Japan Today, 31 maggio 2008.

[10] Colin Buchan Liddel,For Japanese men, disfunction starts in the cradle,  in Japan Today, 31 maggio 2008.

[11]Michael Zielenziger, Non voglio più vivere alla luce del sole. Il disgusto per il mondo esterno di una nuova generazione perduta, Elliot Edizioni, 2008,ISBN 978-88-6192-022-4.   

[12] Honne and Tatemae, Two things that you need to know to understand how the Japanese mind works, su mynippon.com, 4 marzo 2013. 

[13] Michael Zielenziger, Non voglio più vivere alla luce del sole. Il disgusto per il mondo esterno di una nuova generazione perduta.

[14] Chiamo “binario” la tendenza causata da un’esperienza traumatica a ripetersi nel tempo.

Di Katia Bianchi, psicologa e psicoterapeuta.