Game Lab, socializzazione attraverso l’uso di giochi da tavolo e di ruolo (prima parte).
Una premessa.
L’idea di un laboratorio di gruppo legato al gioco nasce dall’aver osservato in particolare un fattore nella mia esperienza con ragazzi in vario modo “ritirati” sociali: è possibile costruire una relazione di fiducia con loro come professionista, come adulto che comprende e si adatta al loro funzionamento.
A volte devi accettare di essere tu ad andare da loro, ad entrare in casa loro se non vogliono uscire (e se acconsentano che tu vada). A volte ti trovi a camminare nel loro quartiere, che è un luogo familiare, una zona di comfort, un’estensione della casa. Altre volte, con grande stupore, arrivano loro da te, la loro spinta all’autonomia o l’emergenza della sofferenza li spinge a prendere un autobus o ad arrivare a piedi al luogo dove lavori e a mantenere una certa costanza, come in una normale psicoterapia. Però una buona relazione terapeutica, un lavoro fatto in due che produce consapevolezza e abbassa angosce, non è detto che si traduca nella capacità di stare in relazione con un coetaneo o con un gruppo di coetanei, di cercarli, di far loro richieste, di affrontare le paure e le incertezze che un tempo passato insieme, a vicinanza fisica, quasi sempre fa scaturire.
Tu, adulto professionista, nel tuo setting di relazione a due, sai come rassicurarli, accogli le loro emozioni, tolleri silenzi e cerchi i tempi giusti per fare domande, non esprimi la rabbia anche la senti, accetti tutto, dosi con cura le tue parole e senti le emozioni scomode che queste possono far scaturire. Rispecchi e rassicuri.
L’incontro col coetaneo è invece più minaccioso, smuove pulsioni di vario tipo, può essere una vicinanza difficile che tocca le fondamenta di sé. Il coetaneo non si adatta ai tuoi bisogni e non è chiamato a farlo, risponde ai suoi di bisogni, parla di quello che vuole, di argomenti a volte paurosi o estranei, di un film horror, di come si bacia una ragazza o di cose che non possono interessarti minimamente e questo influisce sulla possibilità di sentirlo familiare e sulla voglia di tornare a vederlo.
Tanta instabilità, tanta intensità emotiva e tanto rischio di perdere il valore di sé attivano difese interne che possono ergersi e far loro sentire, letteralmente, che non ne vale la pena, che è tutto troppo forte. Quindi, fare un buon lavoro di psicoterapia, può non bastare per creare nuovi contatti e possibili legami fuori.
Un laboratorio di gioco da tavolo e di ruolo ha come presupposto proprio il rispetto di quelle difese dall’intensità della relazione con l’altro. Il suo presupposto è che si sta insieme due ore per giocare e a volte interpretare un ruolo di finzione. Non è richiesto parlare di sé, non è richiesto esporsi ma vi è la reale possibilità che se durante il gioco, o nelle sue pause, nasce un desiderio di esprimersi, di parlare, di domandare, questo può accadere.
Il messaggio implicito è: “Sai che sei qui per giocare ma giocando potrebbe succedere anche qualcos’altro, qualcosa di inaspettato”. Può succedere, una volta abbassate le difese e il controllo, che passino delle cose nuove tra mondo interno e mondo esterno. Può succedere che metti un po’ più di te nel mondo e fai un entrare un po’ di mondo in te, senza angosciarti.
La storia del gruppo.
Ho iniziato con questo presupposto, immaginandomi un piccolo gruppo di ragazzi che gioca insieme ed io con loro. Ho eliminato nel tempo le fantasie che per farli sentire più a loro agio servissero videogiochi o schermi, poiché sarebbe stato dar loro le stesse possibilità che hanno già a casa loro o online.
Al Game Lab ho voluto che si giocasse sia con oggetti materiali che con le immagini della propria mente e che si potesse fare l’esperienza dello sguardo degli altri su di sé e del proprio sugli altri. L’ambiente, sicuramente, si sarebbe caricato di proiezioni e di fantasmi e la speranza era che sulla mia persona i ragazzi potessero proiettare una figura rassicurante, un custode.
Ho sentito che partire con quattro ragazzi insieme avrebbe potuto essere troppo forte, quindi ho deciso di sviluppare gli incontri in maniera progressiva, con l’incontro tra due ragazzi, uno che conoscevo bene, col quale condividevo già 2 anni di lavoro terapeutico, e un altro, molto appassionato di giochi, di cui conoscevo i genitori. Con lui ho preso contatto via mail, poi via messaggio e poi l’ho invitato a conoscerci di persona al centro “Area Libera”.
E’ importante avere almeno un incontro preliminare con un ragazzo che non si conosce. Il senso è quello di guardarsi a vicenda e poi, che io possa avere la possibilità di spiegargli cosa succederà in gruppo, conoscere un po’ i suoi interessi, le cose che lo animano e lo rendono più loquace, per immaginarmi su quali argomenti potrebbe sentirsi competente e potrebbe spontaneamente condividere in gruppo.
Alla fine dell’incontro propongo una partita ad un gioco di carte abbastanza semplice con lui, per sperimentare in maniera più reale l’interazione, la sua capacità di capire le regole di un gioco, rispettarne i tempi, e per aver chiaro che la prima esperienza di gruppo possa esser possibile senza troppa ansia da prestazione e sotto lo sguardo altrui. Se non sono convinto richiedo un secondo incontro preliminare. Tutti i ragazzi di questo gruppo hanno fatto o fanno tuttora percorsi di psicoterapia.
Il primo incontro tra i primi due ragazzi ha avuto i suoi tempi di difesa (e di mia frustrazione). Al primo appuntamento, mi ritrovo da solo con uno di loro, al secondo appuntamento mi ritrovo solo con l’altro. Solo al terzo appuntamento vengono entrambi e, accettando tutti di sentire un po’ d’ansia nell’aria diventiamo un primo nucleo di gruppo.
Abbiamo provato un gioco collaborativo molto attuale, i partecipanti, ognuno con uno specifico ruolo, vivono il diffondersi di una pandemia mondiale devono debellare 4 malattie mortali che mettono a rischio gli abitanti della terra. La plancia è una mappa geografica, i nomi delle città sono reali, così come la loro densità abitativa.
La prima volta non ce l’abbiamo fatta, abbiamo fallito e fatto morire la popolazione mondiale. Ma era un gioco, nella realtà abbiamo visto che fallire insieme era tollerabile. Infatti i ragazzi sono tornati per il secondo incontro. Dopo poco più di un mese di incontri, e dopo aver provato altri scenari di gioco (come essere topi antropomorfi che si ritrovano imprigionati in un castello a sfuggire a gatti e insetti) ed aver costruito un primo senso di familiarità ed abitudine, abbiamo accolto il terzo ragazzo. Dopo altre due settimane, abbiamo accolto il quarto.
In parallelo i partecipanti sono stati aggiunti anche su un corrispettivo gruppo su Whatsapp, dove si possono dare comunicazioni, postare contenuti, domandare e sentirsi in relazione anche a distanza. A volte frammenti di discorso o citazioni di film e giochi emersi durante l’attività di gruppo vengono ripresi e condivisi in chat. E’ uno spazio a servizio del gruppo, di continuità, libero da usare o da non usare.
Sui giochi in gruppo.
I giochi di carte, da tavolo e di ruolo sono tanti, più di quelli che ci si possa immaginare. La scelta dei giochi può avere senso a vari livelli quando si gioca con ragazzi con difficoltà relazionali, in base ai momenti ed alle situazioni. Ci sono giochi di carte più semplici che è opportuno usare per rompere il ghiaccio negli incontri iniziali o quando un ragazzo accede per la prima volta al gruppo.
La situazione nuova, gli sguardi, portano con sé già un certo stress emotivo, quindi facilitare gli inizi con un gioco che non sia cognitivamente troppo impegnativo o troppo lungo come durata e che abbia regole chiare ed individuabili già dalla prima partita, è una scelta mirata all’accoglienza ed una forma di benvenuto.
I giochi da tavolo si dividono principalmente in competitivi e collaborativi, in quelli competitivi il giocatore punta da solo alla vittoria, in quelli collaborativi sono tutti i giocatori che insieme devono raggiungere obiettivi che danno loro la vittoria. Sono due esperienze di gioco differenti, che implicano processi interni e relazionali differenti.
Nel gioco competitivo si fanno pensieri e scelte in solitaria e si è mossi anche dal desiderio di vincere, di affermarsi sugli altri. Il bisogno di competizione è un normale vissuto personale, smuove vitalità, senso ed intenzioni verso una direzione, insegna a tollerare la fatica necessaria per raggiungere un obiettivo e ha come presupposto la possibilità di trovarsi in situazione di sconfitta e quindi la capacità di tollerare la frustrazione di non vincere, di aver fatto una fatica non premiata.
Nel gioco collaborativo, si è meno soli, si gioca per un obiettivo comune, ci si può sentire squadra e questo aumenta il vissuto di appartenenza. Si può riuscire o fallire insieme, a volte si fanno scelte di aiuto e difesa verso un altro giocatore. Nelle fasi iniziali di un gioco collaborativo, da un punto di vista psicologico, anche se può sembrare paradossale, i vissuti di competizione sono più presenti rispetto al gioco competitivo, la propria proposta riceve dei feedback, che possono essere favorevoli o no, si sente più la responsabilità di proporre un’azione che può andare male e far pagare la non riuscita a tutto il gruppo.
Fidarsi degli altri, affidare qualcosa di sé agli altri, richiede una perdita temporanea di controllo sulla realtà che può spaventare e può passare molto tempo perché un senso di fiducia trovi tante esperienze di conferma e si sedimenti dentro di sé. Osservata bene, quella di competizione è anche una dinamica interna: il vissuto del sentirsi giudicati è spesso un questione intrapsichica, sul gruppo o su uno dei suoi componenti si proietta una parte di sé giudicante. Lo sguardo dell’altro può diventare il veicolo del giudizio, anche se non vi sono effettivamente giudizi espressi a parole, o cattive occhiate.
Dopo alcuni mesi di giochi da tavolo a rotazione abbiamo provato un primo gioco di ruolo su una base semplice, costruendo un personaggio e con ambientandolo in un modo futuristico, in un’astronave. Ha accolto molto l’attività di 3 ragazzi, poiché uno si era già sperimentato in altre occasioni nel ruolo di master, che é il creatore dell’ambientazione e il conduttore della narrazione.
Il master crea la scena che i personaggi in gioco poi abitano e modificano con le loro azioni. Quindi armati di fogli, matite e dadi siamo partiti. E’ stata un’occasione di sperimentare e far capire a tutti cosa significa fare un gioco di ruolo. Dopo 4 incontri si è optato per un gioco più strutturato con ambientazione fantasy, i cui personaggi erano un paladino, un mago, un druido e un ladro. Ogni personaggio ha una scheda ed una serie di mosse specifiche per la categoria che rappresenta. Delle mappe disegnate dal master in alcuni casi sono state un utile supporto all’immaginazione.
La situazione di gioco di ruolo è più complessa rispetto al gioco da tavolo ma le opportunità per i ragazzi di sperimentare creatività, improvvisazione ed esposizione personale sono maggiori.
In tante situazioni ci si trova a dover decidere insieme cosa fare, quindi le proprie proposte personali incontrano il favore o i dubbi degli altri giocatori/personaggi. Si fa esperienza della bocciatura della propria proposta ma anche di potersi affidare alle proposte degli altri, la responsabilità è un carico da condividere in molte situazioni. Le mosse hanno poi un riscontro nei dadi, che decretano se l’azione è andata a buon fine oppure no. A volte, nell’ambiente si trovano nuovi equipaggiamenti, si decide chi li porta, si suddivide così il peso tra i personaggi del gruppo.
(continua…)
Salvatore Morabito è psicologo e psicoterapeuta di orientamento psicodinamico.
Vive e lavora a Bologna, dove svolge attività clinica con adolescenti ed adulti presso il suo studio privato e presso il centro “Area Libera” della cooperativa ASSCOOP.
www.morabitopsicologia.com